Il Congo e il sorriso dei bambini da difendere
Cinquantasette anni all’anagrafe e ben cinquantadue missioni umanitarie condotte, per la maggiore, nell’Africa subsahariana tra Senegal, Burundi, Ruanda e Congo. Uno zaino, una bandana e un messaggio da condividere ovunque si possa: l’appello alla comunità internazionale che nel gennaio scorso gli ha consegnato il premio Nobel per la Pace 2018, Denis Mukwege, che in particolare ha denunciato la drammatica situazione in Congo. Francesco Barone, docente universitario nel Dipartimento di scienze umane all’Aquila e volontario, racconta la sua storia alla vigilia della missione numero 53, sempre in Congo – dal 30 dicembre al 17 gennaio – in un Paese che sta vivendo una vera e propria catastrofe umanitaria con centinaia di migliaia di donne violentate, oltre quattro milioni di sfollati e sei milioni di morti.
Quella stessa terra in cui cerca, ostinatamente, il sorriso di tanti bambini, pronti ad accoglierlo con occhi pieni di speranza, nonostante tutto. “Torno nell’area di Goma, in zone che ho già visitato negli ultimi cinque anni”, spiega, “mi aspetto di trovare la situazione che ho riscontrato negli anni precedenti. Intere popolazioni che vivono in condizioni di estrema vulnerabilità. Uomini, donne e bambini che giornalmente devono affrontare le difficoltà di una vita troppo severa e un destino respingente. Ovviamente, parto con il solito ottimismo che serve necessariamente per affrontare una missione umanitaria delicata e complessa. Porterò gli aiuti umanitari: cibo, medicine, vestiti, scarpe, materiale didattico, unitamente a un altro volontario, Gianluigi Zauri, già più volte impegnato in azioni di questo tipo”.
In viaggio possono succedere tante cose, come la pericolosissima schistosomiasi, infezione parassitaria che si contrae facendo il bagno in acque dolci contaminate. “Stavo nuotando nel lago Kivu, tra Congo e Ruanda”, ricorda Barone sposato con Cinzia e padre di Bruno. “Una volta mi è stata diagnosticata anche una forma di malaria. Eppure, non mi stanco di fare esperienze di questo tipo. Fino a che avrò forza voglio essere qui a dare il mio contributo. Troppa gente in Europa e, più in generale, nel mondo occidentale si riempie la bocca di belle parole nei confronti dell’Africa, magari interpretando a proprio comodo il pensiero di Zygmunt Bauman. Ma qui le parole servono poco, abbiamo bisogno di iniziative concrete”. Non solo: anche di passione ed energia che il professor Barone ogni volta mette in valigia, insieme a qualche buon cd di Miles Davis”.
La percezione dell’Africa è quella di un continente “povero”, fatto di realtà difficili e di periferie umane. Qual è la sua impressione a riguardo?
“Penso che sia una giusta considerazione. Ma anche sbrigativa. Come è noto, la povertà ha a che fare con una condizione di subalternità di molti nei confronti di pochi. Il povero è oppresso dalla mancanza. E questa condizione, genera inevitabilmente anche l’esclusione sociale da parte di milioni di persone. Ciò comporta che il povero resta isolato, estromesso non solo dal punto di vista socio-economico ma anche della dignità. Come è noto, da secoli l’Africa è stato un continente appetibile per le enormi risorse naturali. In questi ultimi anni, la presenza cinese ha investito ogni zona africana. Se si seguono le tracce del petrolio, del gas, del coltan, delle foreste, fra deserti, città o savane, è molto probabile incontrare un cinese. È innegabile, nel contempo, che noi occidentali riteniamo di essere i depositari del sapere e della conoscenza. Ci guardiamo con una lente di ingrandimento, facendo il contrario guardando l’Africa e gli africani. Se pensiamo alle carte geografiche di qualche decennio fa, l’Europa appariva più estesa dell’Africa. Se in passato il colonizzatore classico si limitava a depredare le materie prime di certe terre, il colonizzatore moderno sta assumendo una nuova identità.
Qual è l’identità del “colonizzatore moderno”?
“Innanzitutto è autoreferenziale e si dichiara come portatore di civiltà e progresso. Vorrei precisare, comunque, che la povertà non riguarda soltanto l’Africa, infatti, è un fenomeno che investe l’intero mondo. A tale proposito, pur riconoscendone il valore nobile, il gesto occasionale di generosità non è sufficiente perché non tende a mutare sostanzialmente la realtà esistente. Può alleggerire le sofferenze ma non risolve il problema del povero. Il sostegno deve essere un fatto che deve riguardare tutti. Soprattutto coloro che hanno le responsabilità politiche. È un problema universale e deve essere risolto universalmente. La povertà non esisterà più dal momento in cui al povero verrà restituita la possibilità di donare. Tutto sta diventando provvisorio. Nella società moderna sta scomparendo la tranquillità sociale, perché in maniera sempre più evidente assume importanza il denaro e non si ha più nessuna considerazione dei rapporti umani”.
Esiste una parola che ritiene particolarmente significativa e che meglio di altre rappresenta la cultura africana?
“Ce ne sono diverse. Ma ritengo che il termine ‘Ubuntu’ sia quello più rappresentativo: ‘noi siamo perché io sono, io sono perché noi siamo’. Inoltre, alcuni gesti di accoglienza e ospitalità. La parola ‘Amannee’ è la parola che più o meno corrisponde al nostro “qual buon vento ti porta?”. E come non citare ‘Hakuna matata’…
Qual è il suo pensiero sull’Africa?
“L’idea comune è che l’Africa sia soltanto un esteso contenitore di tragedie, conflitti e violenze. Invece per me, l’Africa è anche un continente straordinariamente ricco di cultura e tradizioni. È anche il luogo dell’accoglienza, della partecipazione cooperativa. Vorrei cogliere questa occasione per porre l’accento sul fatto che l’Africa è qualcosa che deve necessariamente riguardarci. La popolazione africana oggi è di circa 1 miliardo e 300 milioni di abitanti. Le previsioni ci dicono che gli africani saranno 2 miliardi e mezzo nel 2050 e probabilmente circa 4 miliardi a fine secolo. Da questi dati emerge che ciò che capiterà in Africa nei prossimi decenni condizionerà di molto il destino del mondo. E in considerazione della vicinanza geografica, delle relazioni economiche e sociali, riguarderà soprattutto l’Europa. I flussi migratori stanno a dirci come tali problemi ci riguardano. Non possono essere sottovalutati”.
Quali ritiene siano le azioni che la comunità internazionale dovrebbe mettere in campo?
“Serve una reale assunzione di responsabilità da parte di tutte le istituzioni e organismi internazionali per favorire lo sviluppo. Secondo le più recenti stime Onu, a fronte di 1,3 miliardi di abitanti, gli ‘espatriati’ africani sono 36 milioni: 19 nel continente e 17 al di fuori. Dunque anche per l’Africa vale la regola globale secondo cui: il 97% delle persone vive nel Paese in cui è nato. ‘Non serve regalare il pesce, ma bisogna insegnargli a pescare’. Quante volte abbiamo sentito ripetere questo slogan? Ebbene, a proposito di pesca, si dimentica che in Senegal negli ultimi anni, imbarcazioni gigantesche, non certamente africane, attraverso la pesca a strascico hanno prosciugato oltre il 70% di pescato. E come dimenticare ciò che avviene nella Repubblica Democratica del Congo, dove ci sono risorse minerarie che varrebbero 25 trilioni di dollari e dove le multinazionali svolgono un ruolo determinante nell’acquisizione di tali ricchezze. Cibo, acqua, istruzione, garanzia dei diritti, salute, sono le parole chiave per favorire lo sviluppo di un continente per troppi secoli sfruttato e per consentire alle persone di vivere in condizioni umane e dignitose. Perché è opportuno ricordare che la vita è la madre di tutti i diritti. La vita è uguale per tutti”.
Barone fa riferimento alla Onlus Help senza confini. Per donazioni e aiuti si può far riferimento all’Iban dell’associazione IT61 Y030 6909 6061 0000 0114 946 (Banca intesa San Paolo)
di Fabio Iuliano – fonte: AgoraVox e Girodivite