
Moby Dick in prima nazionale a Sulmona con Moni Ovadia (intervista)
Moby Dick non è solo una balena: è una maledizione, una sfida tra uomini. È la storia di un’ossessione epica che assume i contorni di una tragedia shakesperiana. Un’ossessione ancora più evidente nell’adattamento di Michela Miano del romanzo di Herman Melville, che domenica 23 marzo (ore 18) debutterà al Teatro Maria Caniglia di Sulmona in anteprima nazionale.
Uno spettacolo che arricchisce la stagione di prosa 2024/25 promossa da Meta Aps, con la regia di Guglielmo Ferro. Sul palco un cast d’eccezione, con Moni Ovadia e Giulio Corso affiancati da Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi, Moreno Pio Mondi, Giuliano Bruzzese e Marco Delle Fratte. La narrazione prende vita a bordo del Pequod, il vascello maledetto che trascina la sua ciurma verso l’abisso delle contraddizioni umane.
Qui si consuma la tragedia dei personaggi in un susseguirsi frenetico di tempeste, cacce, avvistamenti, bonacce, canti, riti pagani e preghiere. Se nella caccia ossessiva a Moby Dick è la follia a guidare il capitano Achab, è nel conflitto con il primo ufficiale Starbuck che il capitano conosce il vero orrore: la parte più oscura della sua coscienza. La sua malattia ha il volto della balena bianca, ma è Starbuck a renderla più crudele. Moby Dick lo ferisce con la sua assenza, mentre Starbuck lo tormenta con la sua presenza.
Un duello speculare in cui galleggia il peccato originale: una balena bianca in un abisso nero. Poi lo specchio ha una crepa. Achab è ossessionato dalla vendetta, un uomo empio che disconosce Dio, l’uomo dell’oltre e della violazione. Starbuck è il suo alter ego, voce della prudenza e della coscienza, testimone di una visione teocentrica che si oppone alla blasfemia dell’odio del capitano. Sul Pequod non c’è redenzione, solo una fitta nebbia.
“È per noi motivo di grande orgoglio”, spiega Patrizio Maria D’Artista, direttore della stagione di prosa, “ospitare il debutto in prima nazionale di una produzione di tale importanza. Questo spettacolo rappresenta un chiaro riconoscimento del lavoro costante di Meta Aps, che si impegna per rendere Sulmona un punto di riferimento nel panorama culturale nazionale. Grazie al contributo di giovani professionisti, appassionati e dediti alla realizzazione di eventi culturali di alto livello, la città sta guadagnando sempre più visibilità e prestigio”.
La produzione è curata dal Centro Teatrale Bresciano, dal Teatro Quirino e dalla Compagnia Molière. Dopo la prima sulmonese, lo spettacolo sarà in scena proprio al Teatro Quirino di Roma dal 1° al 13 aprile. La stagione di prosa 2024/25 del Teatro Caniglia, giunta alla sua quinta edizione, si concluderà sabato 5 aprile alle ore 21 con lo spettacolo Hokuspokus della compagnia tedesca Familie Flöz. impegnata in una tournée mondiale. Un teatro che si serve di mezzi che vengono prima del linguaggio parlato; strumento fondamentale è la maschera che prende vita innanzitutto nell’immaginazione dello spettatore, il quale in questo modo ne diventa, in una certa misura, anche il creatore.
di Fabio Iuliano – articolo uscito su Ansa / Centro
L’INTERVISTA A MONI OVADIA NEL GIORNO DELLA PRIMA
Attesa, tensione, inquietudine al Teatro Caniglia per la prima nazionale di Moby Dick, trasposizione teatrale del romanzo di Herman Melville, con Moni Ovadia e Giulio Corso per la regia di Guglielmo Ferro, uno degli appuntamenti più attesi della stagione di prosa firmata Meta Aps a cura di Patrizio Maria D’Artista. Poco dopo le 18, il brusio della sala si dissolve nel buio. Si anima così l’ossessione epica di una tragedia shakespeariana. Moby Dick non è una balena; è una condanna, una maledizione che diventa sfida tra uomini. Domenica 30 marzo la replica è in programma al Teatro dei Marsi di Avezzano.
A incarnare l’ossessione è soprattutto il capitano Achab, interpretato da Moni Ovadia, autore, cantante e attore. Achab è una figura straordinaria, una delle più grandi della letteratura di tutti i tempi. Oltre alle letture più immediate, cioè oltre alla lotta titanica dell’uomo contro la natura, ho percepito in questa storia un elemento di tanatofilia: una tensione ineluttabile verso la morte, vista come approdo finale.
Cosa intende? Achab è uno storpio: ha perso la sua integrità fisica e, forse, anche la sua umanità per colpa della balena bianca, Moby Dick, e ora vuole vendicarsene a qualunque costo. Dopo l’incontro con Moby Dick, non si riconosce più come uomo. Il suo primo ufficiale, Starbuck, cerca di fargli capire l’inutilità della vendetta, persino con una stima costi-benefici, ma Achab disprezza la moneta come misura di valore e si proietta verso lo scontro finale con la balena. Tutto quello che trova davanti a sé lo percepisce come una maschera di cartapesta, arrivando a odiare ciò che si cela dietro: i “maledetti arcani” che affliggono e terrorizzano l’uomo sin dalla notte dei tempi, lasciandolo vivere con metà del cuore.
Sono dinamiche che ricordano un po’ La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, anche per affinità tra i personaggi. Di fatto, quando Starbuck gli propone di tornare alla normalità, alla vita con le rispettive famiglie, Achab risponde con una visione deterministica: “Lei, signor Starbuck, non ha idea di quello che è la vita umana. Gli uomini sono fatti per girare come qualsiasi verricello. Il destino funge da leva”. Poi spinge l’ufficiale a guardare nelle profondità per vedere il continuo massacro in atto tra tutte le creature, che si divorano a vicenda in un ciclo senza fine di sopraffazioni, dove nessuno sfugge alla legge del più forte. A chi spetta giudicare tutto questo? Così questo grosso leviatano diventa il tormento dell’anima di Achab.
Che messaggio riserva questa storia al nostro tempo? Una cosa ce la può dire, perché alla fine Achab trova la morte. Questa sua ossessione di avere un mandato divino nel “dover” distruggere Moby Dick lo porta alla fine. La stessa ossessione che gli esseri umani hanno nel credere di poter dominare la natura, di poter controllare gli oceani. Noi arriviamo su Marte, noi scateniamo l’energia nucleare, e via dicendo. La lezione di Achab è chiara: portare questa sfida alle estreme conseguenze significa incontrare la morte.
Parallelismi con l’attualità non dovrebbero mancare. L’epica di Achab può essere traslata in chiave contemporanea? Pensiamo all’Europa, per esempio, che si riarma nascondendosi dietro lo slogan della Roma imperialista “Si vis pacem, para bellum”, un atteggiamento che, però, rischia di portare solo verso la distruzione totale.
Del resto “Si vis pacem, para bellum” era azzardato già nell’epoca romana, figuriamoci ora nell’era atomica. La questione è questa: Achab vuole la vittoria a tutti i costi. E invece muore lui. Preparare la guerra porta solo altra guerra. Da sempre, l’uomo fa i conti con la hybris, l’orgogliosa tracotanza che lo porta a presumere della propria potenza e fortuna, ribellandosi contro l’ordine costituito, con la punizione divina come conseguenza inevitabile. Perché esistono le colonne d’Ercole? La sapienza è anche il rispetto di qualcosa che ci sovrasta. Non necessariamente Dio, ma qualcosa che dobbiamo riconoscere. Il creato non è nostra proprietà, ma nostra custodia. Anche la Bibbia ce lo segnala. Il concetto in ebraico si chiama Tikkun Olam, la riparazione del mondo: rendere il nostro ambiente un po’ migliore, proteggere, preservare.
E invece? A distanza di secoli, l’uomo continua a rifiutare questi limiti. L’uomo rifiuta i limiti. Invece di custodire la Terra, crede di poter sfruttare tutto all’infinito, ignorando le generazioni future. Pensiamo al riscaldamento globale, al disboscamento: in Mato Grosso aree grandi quanto la Svizzera scompaiono in sei mesi. Pensiamo all’estrazione indiscriminata delle risorse o, ancora, alle terre rare, per cui si combatte invece di trovare un compromesso di convivenza. Achab incarna questa follia scegliendo la distruzione totale.
Una follia che sembrano incarnare molti. Il titanismo di Elon Musk, che sogna di colonizzare Marte invece di risolvere i problemi della Terra, è lo stesso di Achab, ossessionato da Moby Dick. Un delirio di onnipotenza che ignora le conseguenze. Del resto, anche quando si cacciavano le balene senza freni, nessuno pensava agli effetti ecologici. Oggi c’è più consapevolezza, ma la logica predatoria resta la stessa. Quindi, non è tanto “Si vis pacem, para bellum”, quanto “Si vis bellum, para mortem”, ammesso che abbia senso dirla così.
Sul fronte mediorientale lei ha espresso idee molto nette a difesa della Palestina. Immagino che la rottura della tregua la trovi indignata. Sono furibondo per quello che sta succedendo. Pur essendo ebreo, sono antisionista radicale e ritengo il sionismo il peggior nemico che l’ebraismo abbia mai avuto. Il precetto biblico è abitare la terra, non possederla. Questa è la famosa promessa. Ci sono gruppi dell’ortodossia ebraica che sono forse più antisionisti degli stessi palestinesi: affermano che agli ebrei è proibita una sovranità nazionalista, come indicato nel Talmud. Noi dobbiamo abitare la terra, qualsiasi terra, come stranieri soggiornanti.
Lei denuncia anche un uso distorto della memoria. La memoria è importante, ma talvolta diventa un’arma politica. Il sionismo ha costruito una narrazione che legittima ogni azione dello Stato di Israele come fosse una conseguenza diretta della Shoah. Questo è un uso distorto della memoria. Ne ha parlato bene Norman Finkelstein nel libro L’industria dell’Olocausto. Finkelstein è stato un riferimento per il pensiero critico su questi temi. Finkelstein, figlio di due sopravvissuti alla Shoah, denuncia l’uso della memoria dell’Olocausto a fini economici e politici, o per giustificare lo sterminio di un popolo inerme come i palestinesi.
Cosa possiamo fare noi occidentali, noi europei, di fronte a questi massacri nella Striscia di Gaza? L’Europa fa schifo. Non ha mosso un dito per i palestinesi, salvo qualche belato di circostanza. Riconoscere lo Stato di Palestina avrebbe cambiato gli equilibri geopolitici. Ma l’Europa è ancora colonialista. Nessun dolore è più degno di un altro. Eppure, un morto bianco caucasico è una tragedia, mentre 20mila morti palestinesi sono solo una conseguenza del diritto naturale di Israele a difendersi. Per questo per me è fondamentale ricordare che la specie umana è unica. E la bellezza sta nella diversità: lo stesso uomo crea varie lingue, varie culture.