Lasciare L’Aquila: l’esodo legalizzato delle case equivalenti
«Ti lascio perché…». Quella delle case equivalenti, analizzata nell’anno settimo dal terremoto, a riflettori e polveri abbassati, è una classica storia all’italiana. Una sorta di esodo autorizzato nel post-sisma, che soltanto nelle pieghe degli elenchi pubblici che il Centro ha spulciato fa emergere le sfumature personali e i perché di una scelta. Ma a guardare i numeri complessivi racconta di 511 famiglie trasferite altrove – chi, è vero, a pochi chilometri, chi invece a Milano, Cagliari, Roma, San Benedetto del Tronto, Pescara – per un giro d’affari da 157 milioni di euro.
PARTITA DOPPIA. Una partita doppia tra privato e pubblico, cittadino-Comune-governo, con implicazioni non soltanto dal punto di vista economico ma soprattutto sociale. E antropologico. Una scelta tutt’altro che facile per molti di coloro che hanno deciso di aderire alla possibilità offerta dal decreto 39, poi legge 77, poi dai taglia-e-cuci delle ordinanze e delle circolari attuative che hanno ora aggiunto ora tolto. Nell’Aquila che s’interroga sul suo futuro, e mentre tutt’intorno si discute di spopolamento delle aree interne, e di come scongiurarlo, ecco uno spaccato di quanto avvenuto dal 2009 a oggi dalle parole di alcuni tra i personaggi noti che figurano negli elenchi.
AL MARE. «Dal 1997 ho un rapporto quasi quotidiano con Pescara», dice la giornalista economica Maria Paola Iannella, «ma non è stato facile accettare di trasferirmi in pianta stabile. Ci ho provato a restare, nel mio appartamento in via Fonte Preturo a ridosso di via XX Settembre, ma dopo anni di battaglie è ancora lontana la data di demolizione di un palazzo che sembra bombardato». Di qui la scelta di prendere casa a Pescara. «Ho dovuto investire per far ripartire la mia attività nel campo dell’editoria sulla costa, e poi ho dovuto pensare a mia figlia che aveva bisogno di tranquillità a scuola». Scelta di famiglia anche per il dirigente scolastico e decano dei cronisti sportivi Dante Capaldi. «Anch’Io sono a Pescara. Mia moglie ha avuto bisogno di cure specifiche. Sino ad allora non abbiamo mai gravato sulla spesa pubblica, rinunciando ad alberghi o autonoma sistemazione».
EX SINDACI. Tra le persone che hanno lasciato L’Aquila c’è anche un ex sindaco, Giuseppe Placidi. «Ho questa città nel cuore, ma i miei figli sono grandi e lavorano uno a Siena e l’altro a Roma. Per questo, non avendo certezze sul recupero della mia abitazione a Pettino – proprio sulla faglia – ho deciso di trasferirmi anche io nella capitale». Suo fratello Ernesto, ex vicesindaco, si è spostato a Scoppito. L’ex direttore dell’Accademia di Belle Arti Eugenio Carlomagno, già attivista dei comitati civici, alla fine ha ceduto: Pescara. «Dopo un periodo di speranza e partecipazione», spiega, «la ripresa all’Aquila stenta a farsi vedere. Avevamo bisogno di una svolta». L’evoluzione delle dinamiche professionali condiziona anche gli spostamenti. C’è chi, come il noto avvocato Vincenzo Calderoni ha avuto, dopo il 6 aprile, un aumento delle cause a Roma. «Per questo sono venuto a vivere qui».
FUORI PORTA. Sono pari a circa il 40% le famiglie che hanno richiesto l’abitazione equivalente restando comunque all’Aquila. «Sono decenni che ho fatto del vivere nel capoluogo una scelta di vita», sottolinea l’ex parlamentare Dc Romeo Ricciuti. «Non avrei mai lasciato la città e vivo tuttora non molto distante dal centro». Talvolta si opta per non restare in un luogo segnato in maniera indelebile dalla tragedia, come chi viveva nella zona di Campo di Fossa. È il caso dell’ex vicesindaco Antonello Oliva, oppure del giornalista Angelo De Nicola: entrambi sono andati poi a vivere in periferia. «La mia famiglia abitava in via Santa Chiara d’Acquili, a Belvedere», ricorda il direttore generale di Confcommercio Celso Cioni. «A quell’abitazione erano legati troppi ricordi drammatici, così ho scelto di trasferirmi in zona Acquasanta». Sono usciti appena fuori le mura, infine, l’economista Piero Carducci e l’architetto Enrico Sconci, fondatore del Muspac.