Small town – “Tutte le volte che provo ad amarti”
Mi avevano cucito su misura un Arlecchino all’incontrario, di un unico colore. Pezzi di anima rosa, consistenze diverse: lana, cotone, lino, seta, viscosa, canapa, acrilico a corrispondere ognuno a manine alzate, rossetti, marmi, pastelli, tatuaggi, scarpe, tovaglioli, tramonti, albe, rose, nomi, odori, sapori, lacrime, sorrisi, volti, granelli di sabbia e tramonti, tramonti, tramonti.
Il pittore quando è silenzio si fa opera d’arte. Allo spettatore è concesso il vantaggio che non è concesso all’artista. Lui può spostarsi, posizionarsi in alto, in basso, a destra, sinistra, addirittura potrebbe mettersi sdraiato e, guardando, scoprire ciò che l’artista stesso non avrebbe potuto prevedere mentre dipingeva dalla sua striminzita angolazione.
Vorrei essere come la divinità greca Argo Panoptes, un gigante dai cento occhi che vede tutto da un solo punto di vista. Il Dio cristiano deve stare davvero parecchio in alto e avere vista fina se può godere della panoramica del tutto con un solo unico occhio. Questa cosa che gli altri possono vedere ciò che a me non è consentito mi ha sempre fatto invidia. Per questo, nella mia follia artistica mi sono posizionata dovunque, ho rinunciato alla definizione, a mettere a fuoco, alla prospettiva. Ho danzato sui miei quadri. Li ho capovolti, sfiniti, usati per trovare un fuori spazio che era pure un fuori tempo. La sigla di un presente solo appena percepibile sbilanciato ed estenuato tra un prima e un dopo che non riposa neppure nel colore, soprattutto nel colore. Nel quadro si rischia la follia del limite, sei nel bilico sull’orizzonte. Un passo più in là e precipiti oltre il punto di fuga.
I matti sono tutti gli eccetera degli altri. Le parole ne sanno più di noi, più dei pregiudizi che accordiamo alle persone. Questa è la buona notizia: si può guarire dalla normalità e i poeti e i pittori sono la camera iperbarica di guarigione dalla norma. Una tela bianca è come un foglio bianco: provocazione. Puoi rischiare di riempirli di troppo o di troppo poco. La sfida è il bilico tra queste due enormità. I bambini, i poeti, i pittori, gli artisti sono acrobati dell’imprevisto.
Rischiano il bianco, se ne sporcano. I miei quadri rischiano il labirinto della perdita, la svolta non attesa. Non sono puro oggetto estetico ma contenitore di significato mai davvero contenuto. Quando si sta sull’orlo la diagnosi vuole un ostaggio. Mi hanno inquadrato in pareti bianche e, su quelle, l’orientamento ho rischiato di perderlo davvero. È stato il colore a redimermi dal nulla. In reparto ero per tutti la Pittoressa.
Ho imparato a guardare le cose con le mani. Ho imparato le storie attraversandole con le dita. Sudate, gelide, rigide, accoglienti. Le cose si misurano al tatto. La mia prima opera toccata è stata mia nonna, un quadro plastico. Si è fatta vecchia rimpicciolendosi. Gli occhi no. Quelli gli son rimasti grandi come avessero risucchiato loro tutta la carne del viso. Tra vecchi e bambini le parole si fanno pari. La distanza degli anni si accorcia tra gli uni e gli altri per il percorso circolare della vita e che ti riconduce punto di partenza. Lei parlava di “Nova Iorche”, delle case giganti che tiri su la testa per vederci la fine e a stento si appiccica un po’ di cielo su quei tetti senza punta. Lì ci incassano casette anche piccole piccole e ci vivono in tanti, ma quasi nessuno si conosce.
Nonna non l’aveva mai vista Nova Iorche. Era la sua idea di mondo raccattata dalle telenovelas o dai telegiornali. Di quelli guardava solo lo sfondo. Ma, nonna mia, io a Nova Iorche non ci sono mai andata e ho preferito il centro psichiatrico che illudermi meno matta perché gli altri lo sono più di me. Io non ho mai desiderato l’anonimato per una vita più comoda, io sono stata matta fino in fondo e seriamente. Come te, orgogliosamente. (Mariaester Graziano – Pittoressa)
ELDERLY WOMAN BEHIND THE COUNTER IN A SMALL TOWN
Adesso no, adesso sento che devo muovermi da te, non ce la faccio a stare qui. Uscirò fuori ancora, cercando porte, finestre, blocks, grattacieli, strettoie, mani/bocche/gambe/occhi, segnali one way, palchi, parchi, affinché un giorno ti possa guardare come sei. Perché la mia sola colpa è che non ti ho mai guardata come sei. Non ho molto da rimproverarmi e forse non ho molto da rimproverarti, e potrei salutarti così adesso. Tuttavia mi dispiace fingere che è tutto ok tra me e te. C’è infatti una cosa che mi sta sullo stomaco da tanto tempo: cara piccola città, vorrei sapere come cazzo riesci a farmi sentire in colpa tutte le volte che provo ad amarti.
SMALL TOWN
Pesanti passi, increduli e canuti,
poggiano su vecchie orme,
impresse forti nella strada
fatta d’indelebili ricordi.
Piazze, vicoli e viuzze di questo
piccolo e insignificante posto
parlano ancora;
WHO ARE YOU STRANGER ?
Sconosciuto sono a me stesso,
in questo assolato posto,
fatto di terra, cenere, fumo, tabacco e morte.
Un muretto, una scala, un marciapiede sporco,
cumuli d’immondizia, un paesaggio rotto.
WHAT ARE YOU LOOKING FOR ?
Cerco il “me stesso” fuggito sbarbato,
cerco il bambino tra queste mura,
cerco radici per la mia anima,
cerco la gioia nella paura.
Guarda che sole illumina le mie strade,
quanti giochi hanno insegnato,
gioiosi strilli hanno ascoltato.
WHY ARE YOU SAD ?
Già!
Queste strade non son più mie,
la mia gola più non grida,
nei miei giorni non più gioia.
Ma un dì forse…
WHAT ARE YOU FEELING ?
… Nostalgia.
Con lei progetto cose inafferrabili,
con lei progetto case inaffidabili,
con lei progetto sogni irrealizzabili.
WHAT ARE YOU THINKING ?
Ma io non posso ritornare,
anche se dentro ho tanto amore.
Resti sempre troppo stretto
mio fottuto paesetto.
SMALL TOWN (Antonio Fasulo)
BASE (CHIMICA)
Sono l’abiura a mille triangolazioni.
Sono l’anno trascorso con Circe nell’oblio del circostante (mentre le circostanze sono contro di me).
Sono pena, indulto e amnistia.
Semilibertà ed ergastolo.
Ma mai evasione.
Sono crepa rovinosa fra le tue abitudini.
Ora d’aria e luce tra le sbarre.
Sono la coincidenza che non arriva mai e un treno in corsa senza fermate.
E ancora… sono climax, crasi e sinalefe tra un tuo dubbio e l’altro.
Sono il fiuto di un perdono e l’assoluzione di un sorriso su una dannazione redenta.
Sono un sigillo rosso di ceralabbra.
Sono la cicuta che dà la morte consapevole, sorseggiata con ombrellino e oliva, su un otto volante capovolto come il simbolo dell’infinito.
Sono geyser notturno tra le tue pause oniriche.
Sono amplesso di silicio alle tue composizioni basiche. (Alessandra Prospero)
Chi dimentica è destinato a ricordare
ALBA
Il mio cuore oppresso
con l’alba avverte
il dolore del suo amore e il sogno delle lontananze.
La luce dell’aurora porta
rimpianti a non finire
e tristezza senza occhi
del midollo dell’anima.
Il sepolcro della notte
distende il nero velo
per nascondere col giorno
l’immensa sommità stellata.
Che farò in questi campi
cogliendo nidi e rami,
circondato dall’aurora
e con un’anima carica di notte!
Che farò se con le chiare luci
i tuoi occhi sono morti
e la mia carne non sentirà
il calore dei tuoi sguardi!
Perchè per sempre ti ho perduta
in quella chiara sera?
Oggi il mio petto è arido
come una stella spenta. (F.G. Lorca – legge: Barbara Bologna)
-Il tempo, quanto ne è passato, quanto ne resta, è piuttosto angosciante come concetto reiterato.-
-Comprensibile. Sai perché ne parliamo tanto da queste parti?-
Il giovane scuote la testa e si rimette a lavorare su un pezzo di cucina che cambia aspetto ad ogni passata di straccio, Marco si guarda attorno come a pescare parole e ricordi negli angoli fetidi della roulotte e della sua corrosa, anacronistica moquette.
-Qui, un quarto di secolo fa, il tempo si è fermato per un bel po’ e nessuno sapeva come, quando e se sarebbe tornato a scorrere normalmente. Tutto era come staccato dal resto del mondo, in città distanti non più di un’ora di macchina le ore passavano ancora allo stesso modo, la mattina le sveglie suonavano e le persone andavano a lavorare, gli studenti andavano a scuola, gli operai nelle fabbriche…gli autobus arrivavano dove dovevano arrivare, magari in ritardo ma arrivavano. Ti annoio?-
– No- fa cenno Federico, anche se ancora non mi dici chi sei e cosa cazzo vuoi da me, pensa.
-Le cose normali, le frasi di tutti i giorni, non avevano più senso: “è ora di colazione”, “fra dieci minuti ho un colloquio di lavoro”, “non vedo l’ora che arrivi la mia amante”,…non vedo l’ora…qui nessuno guardava nemmeno più l’orologio. Non avevamo “il tempo” a dirci cosa fare, si aspettava semplicemente che scendesse la notte, che facesse buio, spesso ubriachi, ridendo a voce alta, come per dimostrare che non avevamo paura o almeno che non ne avevamo più ma era una bugia, lo sapevamo e lo sapeva anche il buio. Una bugia se urlata a squarciagola non acquista maggiore credibilità. È una vita che ti segna. Quando poi pian piano il tempo è tornato a farci sentire utili agli altri e a noi stessi, è come se ci fosse rimasta dentro una sorta di dipendenza, non riusciamo ormai a farne a meno, contiamo tutti i giorni il tempo passato ignorando quello che ci resta. (Giuseppe Tomei – Io non c’ero)
So che un giorno avrai una vita bellissima… che sarai la stella nel cielo di qualcun altro. Perché non nel mio?
TANTO PER DIRE
“Devo dirglielo”. Dissi.
“Glielo devo proprio dire” dicevo tra me.
Diciamocela tutta, non che gli dovessi dire
chissà cosa ma, a sua detta, avrei dovuto
dirgli tutto e… detto da lui… era tutto dire!
Vi dirò: dire sapeva dire ma io… io non l’avrei
mai detto.
Perciò glielo dovevo dire!
Ma ditemi… cosa stavo dicendo?
Ah, sì: “devo dirglielo” dissi, cercando di
convincermi ulteriormente di quanto detto.
“Ma come glielo dico?”
A suo dire era semplice, a suo dire…
ma a tratti sembrava indicibile, quasi una stupida
diceria.
Oddio, ma che dico?
“Devi forse dirmi qualcosa?” disse allora lui quasi
predicendo.
E ditemi voi allora, cosa avrei dovuto dire?
“Te l’avevo detto?”
E poi, che cosa vuol dire?
Disse che era solo un modo di dire…
E invece no.
E allora detto, fatto!
Glielo dissi!
Il mio tono fu disdicevole.
Lui non disse più nulla…
Evidentemente avevo detto troppo.
Ma me l’aveva detto lui, in fondo, di dire!
E se ora dovessi dire
se ho fatto bene a dirglielo
potrei sempre dire che…
solo il tempo può dirlo. (Alessandra Prospero)
DIRADALBA
Come occhi
dopo un sonno non voluto,
come specchi
dopo un bagno prolungato,
Evapora la notte.
Rosa.
si accomoda il cuore
tra tutto quel raso.
Fermoimmagine di libertà
Tra il profumo di inizio
in quell’attimo zitto
nel cielo c’è scritto
che allora anche il buio ha una fine.
Nuvole in coda
si intravede la strada.
Diradalba (Ugo Capezzali)
CIUDAD DE LOS GITANOS
HURT
CAN’T FEEL IT
IO E TE
Cosa credi, che sia facile volerti bene? Sei bella, orgogliosa, fiera e colta, ma nello stesso tempo piccola, pettegola, snob e vagamente classista. Sei una di quelle con tante potenzialità che non sai sfruttare. O non vuoi, questo ancora non mi è chiaro. Eppure sempre pronta a criticare chi prova a fare qualcosa, qualunque cosa, per cambiare o migliorare.
Sapessi quante volte ti ho scrutata, anche nei tuoi angoli più remoti, nei tuoi anfratti più sconosciuti, per cercare di capirti, di conoscerti approfonditamente, di sentirmi parte di te, di restare incantata.
Sapessi quante volte ho avuto bisogno di allontanarmi, per respirare meglio, per perdermi altrove, per percepire la tua assenza, per provare a me stessa che riuscivo a non sentire la tua mancanza.
Sapessi quante volte ti ho tradita, percorrendo altre strade e sentendomi a casa anche lì, in posti talmente diversi da ciò che sei, che mi è sembrato quasi un insulto nei tuoi confronti, starci così bene.
Torno sempre, però, con un groviglio indistricabile di rammarico e piacere, proprio qui, al centro del petto, che mi turba e mi fa riflettere su quello che rappresenti per me.
Io non parlo bene la tua lingua e se la sento da altri, perdo un terzo di ciò che si sta dicendo, perché sono figlia tua, ma nipote di altri luoghi ed altri dialetti. Io ancora non capisco alcuni meccanismi che regolano la vita al tuo interno e a volte ne resto schiacciata ed annichilita.
Mi fai andare in collera, ed allo stesso tempo mi fai tenerezza, soprattutto da qualche anno a questa parte, da quando ti sei trovata impreparata, debole e nuda di fronte alla catastrofe e tutti hanno visto le tue ferite, che si stanno trasformando in cicatrici. Anche se ti hanno cambiata di poco. Esteriormente, quello sì, ma credo che la tua anima sia rimasta quasi inalterata e a volte mi chiedo se sia un bene o un male.
Di volare, però, non se ne parla. Forse non se ne è parlato mai.
Sì, lo so. Non è facile voler bene neanche a me, né avermi sempre intorno, con i miei slanci di affetto soffocanti ed i miei scatti d’ira per quelle che possono sembrare minuzie, con le mie critiche taglienti, i miei tentativi di fuga, i miei paragoni impietosi con altre realtà, da cui tu esci quasi sempre perdente, il mio sarcasmo, il mio neanche troppo velato astio nel ribadire che le mie vere radici sono altrove.
Ma forse l’amore vero è questo.
Tutti sono capaci di infatuarsi e di godere della bellezza, dell’armonia e della perfezione. Molto più arduo è amare, oltre al resto, le asperità, i difetti, i lati oscuri, i limiti e le difficoltà.
E allora mi sa proprio che ti amo, nonostante tutto, stronza città, perché io posso criticarti, darti addosso, biasimarti, disapprovare tante tue caratteristiche, ma che nessuno, mai, e per nessun motivo, si azzardi a parlare male di te in mia presenza, perché lo sbriciolo in mille frammenti con le mie stesse mani. (Paola Retta)
LO STRANIERO E L’AQUILA
L’Aquila, capoluogo dell’Abruzzo, circondata dalle braccia del Gran Sasso, è una posizione geografica sconosciuta alla stragrande maggioranza di popolazione mondiale nonostante sia diventata tristemente famosa per il tragico evento del terremoto che si sente ancora ora, dopo anni, decisamente palpabile nell’aria e in particolar modo negli animi delle persone. Noi aquilani conosciamo perfettamente le sensazioni che la nostra città natale ci trasmette: amore, attaccamento, radici e dal 2009 , voglia di ricominciare, di ricostruire, di farla risplendere nuovamente. A volte sentiamo anche bisogno di evadere, di fuggire perchè spesso ci sentiamo oppressi e stanchi a causa dei rallentamenti burocratici : mancano ancora tanti riferimenti. Ma cosa pensa il nostro vicino di casa quando viene qui? Il cosiddetto straniero? Romina, cittadina della provincia di Chieti, quindi non aquilana, straniera, dopo anni di amicizia grazie ai suoi studi universitari, per cui si è imbattuta nel nostro territorio, mi ha raccontato la sua esperienza aquilana , alla quale io ho avuto modo di prendere parte. E’ arrivata un anno dopo la tragedia, non sapeva nulla di com’era l’Aquila prima della distruzione, ma tornerebbe volentieri.
Non sono tante le persone che tornerebbero con piacere a L’Aquila ,nonostante le bellezze del posto e le bontà culinarie che offre, ma quando era arrivata “ non capiva nulla , per lei L’Aquila era solo un mucchio di impalcature e gente che non aveva voglia di stare a sentirla e di considerarla. Gli aquilani sembrano stare tutti per i fatti loro. Solo col tempo ci si rende conto del perché la gente sta così e di quello che è stato il terremoto Non serve sentirlo al telegiornale, non rende”. Solamente dopo aver ascoltato la storia di tutte le persone che ha incontrato sul suo cammino si è resa conto di quello che ha significato. Non ha avuto una buona impressione di noi aquilani ma poi ha capito che noi non avevamo più un’esistenza normale , quindi accogliere l’altro non era così semplice. Non avevamo modo di offrire qualcosa di molto positivo a chi veniva da fuori . Molte persone dopo la triennale vanno via da qui perché non resistono. Lei invece è rimasta: ha trovato il modo di adattarsi e per lei rimanere ne è valsa la pena, sia come ambiente perché ormai aveva avuto modo di conoscere meglio la città e anche in parte gli abitanti. Non crede però, che tornerebbe per restare definitivamente a vivere in mezzo agli aquilani, senza un contesto universitario, quindi con altri “stranieri”, con altre persone non oriunde, anche se non lo esclude del tutto.
Tornerebbe per vedere come sta rinascendo, come la stanno ricostruendo e forse tornerà più bella di com’era prima . L’Aquila offre molte opportunità ma, allo sguardo di chi viene da fuori, restano sempre a livello di nicchie isolate, difficili da scoprire. L’Aquila quindi, non per il suo aspetto geografico, ma per il carattere dei propri abitanti, viene vista in modo poco accogliente . L’Aquila: un posto che potrebbe offrire mille opportunità, città ricca d’arte e di cultura ma anche di divertimento, rimane chiusa per il comportamento dei suoi stessi abitanti. Popolazione testarda, orgogliosa, forse anche perché circondata da un’imponente catena montuosa che accoglie importanti piste sciistiche. potrebbe tornare davvero a splendere. La volontà nel farlo sta a noi aquilani: a resistere , a renderla sempre più bella e viva, non soltanto per noi stessi, ma anche più fruibile per chi aquilano non è. (Alessia Del Re)
GUARDANDO QUELLE MONTAGNE
Ogni volta che guardo quelle montagne, la loro imponenza mi sovrasta.
– Liberatemi, sto soffocando! – arrivo a pensare quando stendo il mio sguardo il più lontano possibile e non rintraccio mai la linea dell’orizzonte.
Quei verdi massicci sono in ogni angolo della mia visuale. “Una culla rotonda” la chiamano alcuni, “una morsa stretta“ la definisco io.
Possibile che una città non permetta di viaggiare lontano neanche con il pensiero?
Un ammasso di edifici arroccati uno sull’altro mostrano l’inutile tentativo umano di domare il paesaggio, ma i “gendarmi di roccia” sono lì a ricordare che oltre loro non si può mai andare. E le voci si rincorrono da un versante di pietra ad un altro in una partita infinita di ping pong in cui non ci saranno mai né vincitori né vinti ma solo chi “l’ha lanciata più lontano!”
Cammino a testa bassa sul selciato di pietra, quando un tocco di campana mi risveglia dai miei dilemmi esistenziali: eccola lì la chiesa di San Pietro, malconcia e vecchia, ma sempre fiera nel suo portamento. Un pallone di plastica rosa colpisce il mio piede destro e una bimbetta bionda con i codini si avvicina; dopo avermi fissato per venti secondi infiniti, sorridendo mi dice – scusa, la posso riprendere? Io e le mie amiche stiamo giocando -. E in un attimo i ricordi salgono con la potenza di un pugno nello stomaco: mi rivedo nello stesso piazzale con gli stessi codini biondi, insieme alla mia amica Linda, mi riscopro emozionata con i miei genitori il giorno della prima comunione. Sento di nuovo i brividi del primo bacio sotto l’ombra di quel campanile.
Di colpo una lacrima mi scende sul viso, le mie braccia si allargano, finalmente libere da quella “gabbia” che io stessa ho costruito sopra le mie radici. Cara città, nella continua ricerca di nuovi stimoli ho dimenticato di essere fatta della tua stessa materia: sassi, terra, ricordi, emozioni. Grazie al tuo abbraccio materno ho potuto crescere e diventare la donna che sono. (Francesca Massaro)
SFACCIATO E STUPENDO
Al mattino si trucca.
le dita celesti
intinte nei sogni
E si lascerebbe
capire.
I suoi cambi di umore
sfumature
perfette
che lasciamo passare.
I suoi segni di pace
sono sette e infiniti.
Poi
quando ormeggia la sera
dalla notte dei tempi
sfacciato e stupendo
indossa l’abito scuro.
sopra gli occhi di tutti
E i gioielli.
Se anzi che cercare riparo
nelle ombre
dei piccoli passi
l’uomo alzasse lo sguardo,
basterebbe il cielo.
A colorare la terra (Ugo Capezzali)
YAWP
Fabio Iuliano (chitarra e voce)
Piero Pozzi (batteria)
Stefano Millimaggi (chitarra)
Alessandra Chiarelli (violino)
Ilaria De Angelis (percussioni)
Danilo Ciccarella (basso)
Reading a cura di Giuseppe Tomei e Barbara Bologna
Con interventi in scena di Diletta De Santis
poesie di Ugo Capezzali, Antonio Fasulo e Alessandra Prospero
Disegni di Romolo Buldrini
Collage di Mimmo Emanuele
e testi di Mariaester Graziano, Paola Retta, Giuseppe Tomei, Francesca Massaro, Alessia Del Re
Foto di Marianna Coccia (DayDream)
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