Via dall’inferno di Gaza dove si opera senza anestetico
Pochi minuti al telefono attraverso Whatsapp – canale con cui è rimasto in contatto con amici e familiari – non sono sufficienti a raccontare l’inferno che da poco si è lasciato alle spalle, ma le immagini che Jacopo Intini sa tradurre in parole sono fin troppo efficaci: operazioni eseguite senza anestetico o sul pavimento di un ospedale. Decine di migliaia di persone ammassate in una scuola con il dramma di dover condividere un solo bagno con un numero spropositato di altri dannati. Donne che partoriscono all’interno di rifugi in condizioni indegne ma che non vogliono abbandonare quel tetto perché l’alternativa è la strada. Insomma, usando le stesse parole dell’operatore umanitario 28enne uscito da Gaza mercoledì “una catastrofe umanitaria senza precedenti nella Striscia”. Intini ne parla con il corrispondente Ansa da Berlino e poi conferma al Centro i passaggi più delicati esprimendo al telefono anche l’auspicio di riabbracciare i suoi, di tornare a visitare L’Aquila e il vicino paese di Lucoli, lì dove è cresciuto prima di specializzarsi nell’attività di cooperazione internazionale, con varie esperienze all’estero, a partire dal medioriente.
Prima degli stage in Giordania, poi nella Striscia di Gaza dove ha lavorato anche per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente, fino all’incarico più recente come coordinatore di area per la ong Ciss (Cooperazione internazionale Sud Sud) di Palermo. Insieme a lui e a sua moglie palestinese Amal Khayal, conosciuta tre anni fa proprio a Gaza, hanno lasciato la Striscia Laura Canali di Human Rights Watch, Maya Papotti di Azione contro la fame, Giuditta Brattini dell’associazione Gazzella. Sono ora in Egitto, assistiti dal personale dell’Ambasciata d’Italia al Cairo per l’imminente rientro in Italia. Uscendo hanno detto: “Ce ne andiamo ma il nostro pensiero ora va a ciò che lasciamo, al disastro di Gaza. I bombardamento continuano, non si sono mai fermati e adesso che siamo fuori, vogliamo ancora rilanciare l’appello di tutte le Ong internazionali per il cessate il fuoco e l’ingresso degli aiuti umanitari”.
Per il giovane, le emozioni da tenere a bada non sono uno scherzo e la stanchezza si fa sentire, ma la sua voce è ferma e decisa. Troppo importante, in questo momento, divulgare il più possibile le notizie da quel lembo di terra in cui oltre 2 milioni di persone vivono sotto la minaccia di una pericolosa escalation militare. Da tempo, Intini, documenta la situazione con dei videoreportage mirati.
Jacopo, esce fuori da una situazione particolarmente delicata. Come ha vissuto queste ultime settimane?
Già prima dell’acuirsi della crisi, il 72 per cento della popolazione dipendeva dagli aiuti. Ora le cose sono precipitate. I presìdi ospedalieri lavorano a singhiozzo e i punti di pronto soccorso non sono sempre funzionanti. Gli ospedali nella Striscia sono sovraffollati e ci sono casi di operazioni che vengono fatte direttamente sui pavimenti.
Un problema anche legato alle migliaia di sfollati a seguito dei bombardamenti.
“Abbiamo visto le condizioni in cui gli sfollati vivono dentro i rifugi, spesso fatiscenti e che comunque non riescono ad ospitare un numero così alto di persone. Ci sono rifugi ricavati all’interno di scuole che sono arrivati ad ospitare 35mila persone, ammassate dentro le classi senza garanzie in termini di igiene.In ogni caso, si cerca di restarvi all’interno il più possibile. Una persona che abbandona il rifugio poi non ha garanzia che ci potrà ritornare, e questo spinge le donne che devono partorire a non andare altrove perché altrimenti, dopo aver partorito magari in ospedale, si troverebbero in strada senza neanche un posto dove andare. Di qui è capitato di assistere a dei parti al limite della dignità umana”.
Gli spostamenti devono essere molto pericolosi.
Ho dovuto cambiare alloggio in base a notizie più o meno attendibili di imminenti bombardamenti. Mi spostavo sovente fra la Striscia e Gerusalemme fino a quando la guerra mi ha sorpreso a Gaza. La mia ong è riuscita a operare per circa una settimana dopo l’attacco del 7 ottobre, poi abbiamo dovuto interrompere le attività, scarseggiando carburante e altri rifornimenti.
Quali erano le sue mansioni abituali le scorse settimane?
Fornivo prevalentemente supporto psicologico e psicosociale, soprattutto a donne e bambini. Un lavoro su vari aspetti della vita scolastica e del quotidiano che non tralascia l’educazione all’igiene personale, soprattutto nelle scuole, e sulla gestione sostenibile dei rifiuti.
Che idea si sta facendo la gente di Hamas? Mi occupo di cooperazione, non di politica.
I suoi cari la stanno aspettando, da suo padre cosmo, affermato pianista, ai rappresentanti delle istituzioni locali che hanno collaborato dall’Aquila con la Farnesina. Conta di tornare?
Mi piacerebbe, certo. Così come conto di ripartire a lavorare in quelle aree, non appena la situazione lo permetta.