Addio allo storico Raffaele Colapietra
27 Aprile 2023 Condividi

Addio allo storico Raffaele Colapietra

È morto questa mattina, intorno alle 6, nella sua casa all’Aquila lo storico e studioso aquilano Raffaele Colapietra. Portano la firma numerosi saggi di storia sociale e sulle classi dirigenti del Mezzogiorno in età moderna e contemporanea, occupandosi, in particolare, della Napoli vicereale, di Masaniello, della transumanza, nonché dei partiti politici italiani fra XIX e XX secolo.

La sua opera principale, tuttavia, consiste in una corposa biografia politica di Benedetto Croce uscita, in due volumi, tra il 1969 e il 1971. Era nato nel capoluogo nel 1931 ed è stato docente di storia moderna presso l’Università di Salerno, dove ha insegnato fino al 1990. All’Abruzzo, e alla sua città natale, ha dedicato diverse pubblicazioni, oltre a numerosi articoli pubblicati in particolare sulla “Rivista Abruzzese”. È stato insignito dall’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” dell’Ordine della Minerva.

Grazie al documentario ‘Draquila’ di Sabina Guzzanti, in cui compare, ebbe risalto la sua scelta, da unico aquilano nel centro storico, di volere continuare ad abitare nella propria casa gravemente lesionata dal sisma del 2009, per il desiderio di non abbandonare né i propri gatti né i propri libri.

“Feci qualcosa che mi sentivo – si trovò a commentare in un’intervista per i 90 anni -. Peraltro la mia casa era danneggiata, ma non distrutta. Avevo tutta la possibilità di restare. E invece, purtroppo, ho visto moltissimi miei concittadini abbandonare L’Aquila per non farvi ritorno, se non dopo mesi, anni a volte. Qualcuno ha lasciato la città per sempre. Questa città, in qualche modo, è stata tradita. Quella del terremoto è stata una pagina particolare. Una narrazione a servizio di chi era a capo dell’allora governo”.

Tra i primi messaggi, quello dell’ex sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, “Una notizia tristissima – scrive Cialente -Perdiamo un grande intellettuale, libero e coraggioso. Interlocutore spesso critico ma utilissimo per chi volesse veramente capire le nostre comunità. L’ho profondamente stimato”.

Y3M

La terra tremava ma non lasciò mai la casa

Si fermò sulla soglia, rifiutandosi di uscire e trovando dentro di sé la forza di contrastare l’invito a lasciare la casa, l’unica ancora abitata nel centro storico all’indomani della scossa del sei aprile. Un gesto che fece di Raffaele Colapietra uno dei simboli, se non il simbolo di una città che provava a rialzarsi sulle proprie gambe. Il suo racconto è tra i più significativi tra quelli riportati nel docufilm “Draquila – l’Italia che trema” di Sabina Guzzanti: dietro al suo desiderio di non abbandonare né i propri gatti, né i propri libri c’erano le ansie e le aspettative di un’intera comunità che non voleva rinunciare ai propri spazi e alla propria identità. “Affacciandomi dal balcone la mattina del sei aprile”, confidò dalla sua abitazione ancora solitaria alla troupe che lo intervistava a pochi mesi dal terremoto, “ho visto questo panorama che è quello che vedete voi, un deserto senza una luce, senza una famiglia, senza una voce”. Di qui un racconto non senza una punta di sottile ironia. “C’è stato questo impatto con la Protezione civile e con ‘i salvatori’, cioè coloro che venivano qua e si concentravano con estrema insistenza e anche con ‘estremo calore’ che naturalmente degenerava spesso anche in una forma di ‘sia pure involontaria’ intimidazione, per indurmi ad abbandonare la casa, per la mia salvezza. Volevano strapparmi alla morte, una morte che non c’era e che io non consideravo imminente. Tuttavia, l’insistenza di queste persone, uno spettacolo di una decina di omaccioni, mi aveva in qualche modo spinto a mettere il trench e prendere in mano la mia solita borsa”. Non varcò la porta d’ingresso. “Benedico ancora quella forza e quell’istante”. Una scelta che ha sempre rivendicato. “Feci qualcosa che mi sentivo”, dirà anni dopo. “Peraltro la mia casa era danneggiata, ma non distrutta. Avevo tutta la possibilità di restare. E invece, purtroppo, ho visto moltissimi miei concittadini abbandonare L’Aquila per non farvi ritorno, se non dopo mesi, anni a volte. Qualcuno ha lasciato la città per sempre. Questa città, in qualche modo, è stata tradita”. Un capitolo, quello del terremoto, che Colapietra ha sempre raccontato da una prospettiva interessante. “Quella del terremoto è stata una pagina particolare”, ha detto più volte, “una narrazione a servizio di chi era a capo dell’allora governo: Silvio Berlusconi che sfruttò tutte quelle visite per accrescere il suo consenso personale. In quei giorni sentivo certe dichiarazioni di Berlusconi che sembravano echeggiare l’’Io sono la resurrezione e la vita di Gesù Cristo’. Quasi che Berlusconi dicesse: posso far rivivere i morti e posso farlo a modo mio. Ed è quello che ha fatto: ha permesso a questa città di ‘morire’ consentendo alla gente di andar via facilmente, li ha mandati ‘in vacanza’. Salvo, poi, farsi il garante di una ‘resurrezione’ all’interno delle famose 19 aree. Per non parlare di quello che accadde con la commissione Grandi Rischi. In questo, ricordo con affetto l’impegno dell’avvocato don Attilio Cecchini in quella delicata battaglia legale”.

Quando disse agli aquilani: siete chiusi e invidiosi

Dalle critiche alle scelte della ricostruzione, alla posizione del crocifisso. Dalle riserve su interventi di restauro alle bacchettate ai governanti di turno, dagli enti locali a palazzo Chigi. Non solo. Le parole dello storico Raffaele Colapietra sono andate a colpire l’orgoglio profondo di una città specie quando, nel demolire Sant’Agnese, riservò agli aquilani aggettivi come “chiusi, invidiosi, classisti e ipocriti”, con buona pace degli sforzi del Pianeta Maldicenza di accreditare la tradizione. “Pensiamo al Novecento”, si trovò a dire, “quando l’istituzione per eccellenza della società aquilana era la lettera anonima. Ne arrivavano a centinaia: era la quintessenza della società del tempo. Siamo una città fondata sul gesuitismo, vicinissima a Roma, che potrebbe dialogare in una lingua cosmopolita. Invece, ci si diletta a infangare il nome altrui e a godere nel farlo, colpendo la sfera privata, sentimentale o politica”. Politica e religione che nelle parole dello storico non hanno mai collimato bene. “Il crocifisso”, disse ad esempio, “non deve stare né nell’aula del consiglio comunale, né nelle caserme, né nelle scuole. Ma soltanto nei luoghi di culto”. Di qui giorni di polemiche. Come quando ad Avezzano si oppose al trasferimento degli agenti della polizia locale a palazzo Torlonia evocando “i Lanzichenecchi e il Sacco di Roma”. Sempre a proposito di religione, arrivò a bollare il riconoscimento Unesco della Perdonanza come “un pezzo di carta che darà più senso alla ricorrenza”. Del resto, Colapietra ha sempre saputo guardare la realtà con il giusto distacco, anche nel caso della corsa per la capitale della Cultura 2022 che poi premiò Procida. “La città ha tutto da guadagnare, ma diciamo la verità: non ha credenziali per questo titolo”. Celebre il battibecco con il sindaco Pierluigi Biondi in merito allo stato di abbandono di alcuni luoghi della cultura, a partire dalla biblioteca e sulla fruizione dell’arte. Colapietra si trovò a parlare anche di “una sordità nei confronti di queste problematiche che non ha colore politico”. Le sue riserve, sovente fondate su basi storico-culturali, non risparmiarono neanche lo stemma della città: “il ‘Phs’ è frutto di un errore, togliamo tutto, anche la scritta ‘Immota manet’, che non è che la negazione dell’Aquila: una città che tutto può fare tranne che rimanere immobile.

di Fabio Iuliano – fonte: il Centro / Ansa