Bowie, che della sua morte ha fatto un’opera d’arte
Era la primavera del 2016, quando il direttore del giornale per il quale al tempo lavoravo mi chiamò per dirmi che in città si trovava Enrico Ruggeri, reduce da un’ospitata in un centro commerciale. Mi vestii rapidamente, corsi in macchina e feci di tutto per intervistare colui che fu punk prima di noi. Alla vista della mia t-shirt degli Iron Maiden, mi accolse sorridendo. “Sai che ho giocato contro Steve Harris in una partita del cuore tra le nazionali cantanti?”, mi chiese. Parlammo liberamente dei suoi ultimi progetti musicali e dei principali fatti di quei giorni. La chiacchierata virò su David Bowie, scomparso il 10 gennaio 2016, due giorni dopo il suo sessantanovesimo compleanno.
Ruggeri, di episodi sui protagonisti della musica internazionale, ne avrebbe da raccontare un’infinità, eppure rimasi colpito da come descrisse “Blackstar“, ultimo studio album dell’artista londinese, pubblicato solo due giorni prima della morte.
“La musica, come la vita, è arte. Con ‘Blackstar’, Bowie, ha fatto della sua morte un’opera d’arte“.
Una frase rivelatrice. Nella sinteticità dell’espressione era racchiusa tutta l’essenza del David Bowie uomo e artista. Un’esistenza, quella del Duca Bianco, vissuta a stretto contatto con le stelle e lontano da orizzonti che noi, comuni mortali, possiamo anche solo concepire. Un’epopea onirica di andata e ritorno da Marte e da quegli oceani d’infinità nei quali perdersi per trovare, o ritrovare, una creatività mai sopita dal tempo e dalle mode che, di decade in decade, si sono alternate.
David Robert Jones ha fatto della sua vita un’opera d’arte.
Il trasformismo che ne ha caratterizzato la carriera è stato tra i più umorali che si ricordino, per lo meno con riferimento agli ultimi cinquant’anni di musica internazionale. Ha determinato e riscritto canoni e stili, rinnovando il concetto di avanguardia applicato alla composizione musicale. Impossibile quantificare l’influenza avuta su tutto ciò che si è palesato dopo la sua ascesa terrena. Camaleontico, multiforme, imprevedibile: difficile descrivere chi fu realmente Bowie, stella non appartenente a questa galassia, talmente luminosa da brillare anche nell’oscurità della morte.
David Robert Jones ha fatto della sua morte un’opera d’arte.
“Blackstar” è l’epitaffio di una carriera avviata nel 1967 e conclusasi solo con la dipartita terrena, lo stesso Tony Visconti, storico produttore e suo amico intimo, aveva confidato che il Duca Bianco considerasse l’album come una sorta di canto del cigno. Bowie, che aveva più volte ribadito di volersene andare in silenzio, senza troppo clamore e confusione, chiuse gli occhi consapevole che la sua stessa morte sarebbe stata comunque parte integrante dell’album.
Il testamento che Bowie ha consegnato all’umanità è stato concepito negli ultimi anni della sua vita, tra le sofferenze della malattia e un’ispirazione straordinaria. Un lavoro intenso e profondo, intimo e spietato, nato dalla sofferenza e messo in scena come una drammaturgia shakespeariana. Perché nel presagio della sua morte ha predisposto una scacchiera di trame e sottotrame svelate nei sette brani che compongono il disco, il venticinquesimo della sua carriera.
Dall’album fu estratto il singolo “Lazarus“, accompagnato da un videoclip registrato nel novembre del 2015. In quei giorni fu chiara la situazione: il cancro stava divorando Bowie che sapeva di avere i giorni contati. Decise di interrompere le cure al fine di concentrarsi esclusivamente sulla sua musica, isolandosi anche dalle speculazioni circa il suo stato di salute. Nel video appare sdraiato su quello che potrebbe essere un letto d’ospedale, ma non ci vengono forniti altri dettagli se non alcuni oggetti presenti nella stanza buia e fredda, spoglia e inquietante.
É rimboccato sotto le coperte, con il lenzuolo tirato su fino al mento, quasi a volersi riparare dall’ombra che da lì a poco lo avrebbe avvolto.
Bendato, visibilmente scavato in volto, sembra recitare il brano come una laica messa in Requiem. Gli occhi hanno perso la loro funzione di orientare il corpo, proiettati ormai nell’assoluto celeste, persi nell’indissolubilità dell’addio terreno. Ma con David Bowie nulla è mai stato scontato e il viaggio verso l’altra dimensione, quella post mortem, appare ogni secondo più chiara.
La mente viaggia, esplora e sconfina, spinta da motivazioni extraterrene che pongono l’artista di fronte alla messa in scena della sua morte.
“Blackstar” è uno scrigno che custodisce le ultime volontà del Duca Bianco, ma anche segreti talmente articolati che, probabilmente, non verranno mai decriptati. Ammesso che ve ne sia un reale bisogno. Tra indizi e riferimenti, l’album è un mosaico da ricomporre con meticolosa attenzione prima di poter essere giudicato o, meglio ancora, compreso.
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Perché si, David Bowie, della sua morte, ha fatto un capolavoro.
LAZARUS
Look up here, I’m in heaven
I’ve got scars that can’t be seen
I’ve got drama, can’t be stolen
Everybody knows me now
Look up here, man, I’m in danger
I’ve got nothing left to lose
I’m so high it makes my brain whirl
Dropped my cell phone down below
Ain’t that just like me?
By the time I got to New York
I was living like a king
Then I used up all my money
I was looking for your ass
This way or no way
You know, I’ll be free
Just like that bluebird1
Now ain’t that just like me?
Oh I’ll be free
Just like that bluebird
Oh I’ll be free
Ain’t that just like me?
LAZARUS
Guarda qui, sono in paradiso
Ho cicatrici che non si vedono
Ho il mio dramma, nessuno me lo può togliere
Tutti mi conoscono, adesso
Guardami, sono in pericolo
Non ho più niente da perdere
Sono così sballato che il mio cervello turbina
Ho fatto cadere giù il cellulare
Non è proprio da me?
Quando arrivai a New York
Vivevo come un re
Poi ho bruciato tutto il denaro
per cercarti come un matto
In questo modo o in nessun’altro
Sai, sarò libero
Proprio come quell’uccellino azzurro1
Mi ci vedo proprio in tutto questo
Oh, io sarò libero
Proprio come quell’uccellino azzurro
Io sarò libero
Non è una cosa proprio da me?
1 Era il 10 gennaio 2016, come riporta il Fatto Quotidiano, e dopo la morte dell’uomo che amava, sua moglie Iman decise di fare una passeggiata all’aperto: “Si era fermato davanti a me un Sialia (Bluebird)“. Si tratta di un uccello azzurro della famiglia dei Turdidi. L’incredibile? David lo aveva citato nel suo album Black Star e precisamente nel bellissimo brano Lazarus. Un segno.
di Federico Falcone – fonte: The Walk of Fame