Bob Dylan, “Original vagabond” del nostro tempo
“Quando ho iniziato a scrivere da adolescente, le mie aspirazioni non si spingevano oltre qualche concerto tra caffetterie e bar, magari più in là, posti come Carnegie Hall o London Palladium. Se proprio volevo sognare in grande, immaginavo di incidere un album e mandare qualche mio pezzo in radio”.
Non serve di leggere fra le righe del discorso di accettazione del Nobel, affidato a suo tempo all’ambasciatrice americana in Svezia, Azita Raji, per capire quanto potesse essere difficile per uno come Bob Dylan (nato Robert Zimmerman) immaginare la strada che le sue canzoni avrebbero percorso da quando – circa 60 anni fa – dal Minnesota sbarcò a New York per suonare nei locali del Village.
E proprio oggi, che di anni ne compie 80, il menestrello può spegnere le candeline nella sua villa di Malibù consapevole di lasciarsi alle spalle un’eredità senza precedenti nella musica e nella letteratura. Pochi, come lui, possono vantare maggiore influenza sul suo tempo, dai primi accordi, fino ai versi del suo ultimo album “Rough and Rowdy Ways”, declamati più che cantati, in piena pandemia.
Chissà se nel suo viaggio da “Forever Young” avrebbe mai immaginato di vedersi dedicare una tre giorni di simposio all’Università di Tulsa, in Oklahoma – oggi le battute conclusive – per iflettere sul suo lavoro e guardare avanti a cosa significherà per le nuove generazioni di fan e studiosi. Giornalisti, ricercatori, podcaster, fan e attivisti da tutto il mondo chiamati a riflettere sul suo instancabile lavoro di performer, artista, attivista e cantautore, così come appunto “sulla sua travolgente influenza culturale”.
Proprio a Tulsa si lavora per è l’allestimento finale di un archivio segreto affidato al miliardario George Kaiser: il Bob Dylan Center in questa cittadina dove, in un gemellaggio simbolico, sono custodite le carte del suo idolo Woody Guthrie.
L’età non ferma il genio, così come il misterioso incidente di moto del 1966, o la pericardite che nel 1997 lo spedì in ospedale, ma si riprese in tempo per cantare davanti a papa Woityla al Congresso Eucaristico di Bologna, mentre l’eredità difficilmente inquadrabile, è enorme grazie a 125 milioni di dischi venduti, dieci Grammy e l’Oscar nel 2001 per “Things Have Changed” dal film “Wonder Boys”.
Ci hanno provato i giurati del Pulitzer, annunciando a sorpresa nel 2008 il premio per la poesia, poi nel 2016 i colleghi del Nobel paragonandolo a Omero, Ovidio e ai visionari del Romanticismo.
“There is not a bigger giant in the history of American music – Non c’è gigante più grande nella storia della musica americana”, aveva detto il presidente Barack Obama consegnandogli nel 2012 la Medaglia della Libertà dopo averlo invitato due anni prima a cantare alla Casa Bianca con Joan Baez, la musa dei suoi vent’anni, per un concerto ‘colonna sonora’ delle marce per i diritti civili”. I tempi di “Diamons and Rust” sono ben lontani.
Dylan però respinge etichette, in prima battuta quelle politiche, così come rifiuta “che la sua carriera venga imbalsamata”, come scrive Paul Morley in “You Lose Yourself You Reappear”, uno dei nuovi libri che celebrano la ricorrenza aggiungendosi a un catalogo di oltre 4.000 scritti su di lui, per non parlare dei documentari di cui due firmati da Martin Scorsese. Negli ultimi due anni, oltre a ultimare al suo ultimo album, Dylan ha venduto per 300 milioni di dollari il suo catalogo musicale a Universal Music.
Intanto si preparano i festeggiamenti: Patti Smith, che nel 2016 ritirò a suo nome il Nobel per la letteratura – e si impappinò, commossa, mentre cantava “A hard’s rain a-gonna fall” – ha celebrato Dylan ieri e l’altro ieri a Tivoli nello stato di New York. Festa anche a Duluth, dove Dylan è nato, e nella vicina Hibbing, dove la famiglia si trasferì dopo che il padre Abe Zimmermann, colpito dalla polio, aveva perso il lavoro e dove il Dylan liceale si nascondeva sotto i banchi durante le esercitazioni anti-atomiche.
Elusivo come sempre, difficilmente il festeggiato si propone di marcare la ricorrenza in pubblico. Al contrario, curiosamente, come ricorda il Corriere della Sera, all’inizio degli anni Novanta, Dylan fu pressoché ignorato per le strade di Napoli: stava per esibirsi al Palapartenope e decise di uscire a sgranchirsi le gambe per curiosare tra le bancarelle intorno al Palapartenope.
“Quanto costano?”, chiese Dylan in inglese, indicando le t-shirt con sopra stampato il suo volto. Domanda quasi ignorata dagli ambulanti. Poco più avanti se la vide anche con alcuni bagarini che volevano vendere o comprare alcuni biglietti, glielo dissero in napoletano peraltro. Infine,
L’ambulante rispose in modo evasivo, seccato da quel cliente non interessato all’acquisto. Non ottennero nulla neanche i bagarini che, in napoletano, gli proposero di comprare alcuni biglietti. Per il futuro premio Nobel non fu facile nemmeno rientrare in teatro: gli uomini della sicurezza lo bloccarono perché era senza pass.
Carisma e mistero, realismo e mitologia: in sei decenni alla ribalta Dylan è stato un veggente senza età e la voce di una generazione. Ha abituato i fan ad aspettarsi l’inaspettato: come quando nel 1965 “suonò elettrico” a Newport o, più di recente, si è messo a produrre il whiskey “Heaven’s Door”. O quando ancora ha “affittato” canzoni iconiche per spot di Apple, Cadillac, Pepsi, Budweiser e la catena di intimo Victoria’s Secrets. Quest’ultimo, girato nel 2004 a Piazza San Marco, con l’unica apparizione del cantante in una pubblicità sullo sfondo del Canal Grande.
di Fabio Iuliano – fonte: TheWalkofFame.it
Foto di copertina: Weston MacKinnon on Unsplash