
Lithium 24, l’intervista su BookReporter
(di Paolo Tocco) Con pochi click sugli store digitali e qualche centinaia di euro potete comprare il primo casco per pilotare i computer con la forza del pensiero.
Non è pazzia. È tutto vero… Dunque, cosa sia la follia oggi è un tema che purtroppo (o per fortuna) si mescola con la realtà dalle possibilità infinite. E sotto la traccia di questo racconto, raccolgo anche lo spunto per aprire riflessioni interessanti sul capitalismo della sorveglianza, su quante allucinazioni mentali, forse (e sottolineo forse), potrebbero avere anche una solida base di verità che noi ormai chiamiamo normalità.
Come a dire: un tempo i pazzi “vedevano” cose assurde, mai possibili, mentre oggi, a pensarci bene, delirio e realtà non sono poi così distanti.
Conosco personalmente Fabio Iuliano, amico di vita, anima elegante con cui condividere parole mai banali… parole, oggetti forse passati di moda ma che lui, da giornalista di lungo corso, sa come custodire e come muovere poi nel tentativo (sempre salvifico) di scoprire cose nuove.
E dunque sapevo di poter provare comodità e fascino nel leggere la vicenda che trascrive quasi come fosse di getto, quasi come una “vomit song” di Stipe.
Ed è uno scritto lungo di appena 72 pagine tascabili, pubblicato da All Around. Si intitola Lithium 24: la storia è quella di Simone, giovane in erba con la sua carriera di giornalista musicale – e tanta sarà la musica che incontreremo, compreso un QR-Code a chiusa del libro per accedere alla playlist di Spotify dentro cui, oltre ai brani citati, troveremo scritture inedite a firma dello stesso Iuliano.
La vicenda, dicevamo: la penna mescola realtà ed espedienti narrativi per condurci a vedere e rivivere quella manciata di giorni, anzi di ore, concitate e frenetiche, che Simone attraverserà diretto all’appuntamento finale…
Amo tenermi sul filo delle allegorie sperando di incuriosirvi a una lettura che in fondo fa lo stesso, disvelando l’assurdo e le visioni del protagonista, poco per volta… e poco per volta, noi con lui, torneremo alla realtà della ragione e delle cose concrete.
Eppure mi resta una domanda che non ho il coraggio di fare a nessuno: sicuri che sia questa la realtà delle cose concrete?
Realtà e immaginazione si mescolano. Hai mai pensato a quanto questo romanzo metta luce sul tema del controllo della realtà nella vita di ogni giorno?
Sì, ci ho pensato eccome. Il protagonista, Simone, vive una frattura continua tra percezione e realtà oggettiva, ma non è solo una condizione clinica. È qualcosa che ci riguarda tutti. Basta leggere certi titoli, seguire certe campagne pubblicitarie, notare quanto la narrazione pubblica sembri sceneggiatura. Pensiamo anche ad algoritmi e reti neurali che sembrano conoscerci meglio di chiunque altro. C’è un punto nel libro in cui Simone dice di sentirsi osservato da sempre, fin da quando aveva cinque anni e mezzo. Le telecamere, i controlli, la sorveglianza, le voci che si azzittiscono… È un delirio? Forse. O forse è solo un filtro alterato su una realtà già distorta.
Ha senso pensare che ci siano simboli precisi dietro ogni singolo dettaglio nelle visioni di Simone?
Il senso non sta tanto nella precisione dei simboli, ma nella loro potenza evocativa. Alcuni oggetti ricorrono: la cassetta con la voce da bambino, la Harley, la pillola, il foglietto con l’indirizzo. Sono frammenti di senso che si riorganizzano nella mente di Simone, diventano ponti, specchi, trappole. Non ho costruito un codice simbolico rigido. Ho lasciato che fossero le immagini a galleggiare, come in un sogno. Anche perché così questa storia mi è stata raccontata.
Parigi ha contribuito o è solo lo sfondo?
Parigi è uno dei personaggi. È la città dove Simone si perde, ma anche dove prova a ritrovarsi. La città dei passaggi, dei sottopassi, dei binari, delle luci al neon e dei bistrot semivuoti. La Parigi delle stazioni, dei quartieri difficili, delle linee sbagliate della RER. Ma anche quella delle piazze inondate di gente, delle ragazze misteriose sulla metro con cui incroci gli occhi. La Parigi che racconto, insomma, non è certo la città della Tour Eiffel, del Bateau Mouche o del Moulin Rouge. È comunque uno spazio mentale, oltre che geografico.
La musica nella scrittura: colonna sonora scelta dopo o parte della trama?
Entrambe. Alcuni brani li avevo già in testa prima ancora di scrivere certe scene. Altri sono arrivati dopo, come necessità. Ad esempio “Red Mosquito” dei Pearl Jam accompagna il ricordo di una zanzara sulla finestra dell’ospedale. Non è un caso. La musica scandisce il ritmo, condiziona la struttura, entra nella psiche del personaggio. E la playlist, accessibile via QR code, serve proprio a condividere quel battito.
La musica torna sempre nei tuoi testi. Perché? Che rapporto hai con il suono?
Mi piace autodefinirmi un turista della musica. Turista, neanche viaggiatore. Per me la musica è un linguaggio. A volte anche più onesto delle parole. È un modo di stare nel mondo. Quando scrivo, c’è sempre un sottofondo mentale. Alcune immagini non esisterebbero senza quel tappeto sonoro. Il suono è corpo e memoria. In Lithium 24, è anche un mezzo di resistenza, l’unico appiglio che Simone sembra avere per restare in piedi.
Hai mai rivisto i luoghi raccontati? Possono restituire vita alle visioni?
Sì, ci sono tornato. Lo faccio spesso. Alcuni quartieri li ho rivisitati dopo anni: il boulevard Saint-Germain, la Défense, rue de l’Aqueduc. Non so se restituiscano la vita di quei giorni, ma di sicuro restituiscono senso. L’ultima volta sono stato nei giorni della cerimonia di apertura delle Olimpiadi. Anche quest’estate sarò a Parigi, stavolta voglio mettermi alla ricerca di questo Espace Maison Blanche dove è rinchiuso il protagonista in una specie di Tso.
Sembra una scrittura “vomitata” di getto. È così?
Sì, è una scrittura che non chiede il permesso. È un flusso che ho lasciato scorrere, senza freni. Certi passaggi sono stati scritti davvero in stato di urgenza emotiva. Poi sì, c’è stata revisione, ma minima, anche con l’aiuto di professionisti come Antonello Loreto, prezioso come fu Giuseppe Tomei nella prima versione del libro uscita come Lithium 48 (Aurora edizioni). Volevo tenere intatta quella concitazione, quel senso di smarrimento. Era prioritario restituire verità, non perfezione.
Il delirio di Simone è quasi verosimile. Hai riflettuto su quanto queste visioni siano concrete?
Simone non è pazzo. O meglio, lo è nel modo in cui potremmo esserlo tutti. Le sue visioni sono iperreali. Le telecamere, il controllo sociale, le voci dei colleghi, le chat criptiche… sono pezzi di una quotidianità che conosciamo. Semplicemente, lui li sente al massimo volume. Sia chiaro, lui non soffre di allucinazioni, ha solo una interpretazione alterata della realtà che gli si presenta davanti.
Oggi ci sono i farmaci. Ma la società ha fatto davvero passi avanti nella consapevolezza?
Qualcosa è cambiato, sì. Ma siamo ancora molto indietro. Il trattamento sanitario obbligatorio, la sedazione, il ricovero coatto… sono misure che esistono ancora. La consapevolezza cresce, ma resta fragile. Lithium 24 vuole anche porre questa domanda: come trattiamo chi esce dal perimetro? Come reagiamo quando qualcuno non rispetta la coreografia sociale? Lo stigma esiste, eccome, per i disturbi psichici e le malattie mentali: se ci si rompe un braccio, lo si ingessa. Il gesso lo porti in giro senza nasconderlo. Quando si rompe qualcosa dentro, invece, è molto più difficile trovare comprensione all’esterno. Altrimenti non avrei avuto problemi a rivelare l’identità del protagonista di questa storia che è accaduta veramente.
Perché hai lasciato alcuni dialoghi in francese senza tradurli?
Beh, non tutti. Molti dialoghi sono tradotti. Talvolta però volevo che il lettore si sentisse dentro la testa di Simone, come se fosse anche lui in quella stanzetta senza riferimenti, spaesato. Simone vive in una zona grigia, tra lucidità e allucinazione, e quel continuo passaggio da una lingua all’altra – a volte capita anche nel delirio – serve proprio a far sentire la perdita di controllo. Un esempio chiaro è nella scena del boudoir di Mathilde. Qui non è soltanto il contenuto a essere di impatto, ma il modo in cui è detto. La lingua cambia il tono, cambia l’effetto. Tradurre avrebbe tolto potenza alla scena, avrebbe normalizzato qualcosa che invece deve restare scomodo, ambiguo, disturbante.
Nella playlist c’è “Passando”, il tuo singolo. Che storia c’è dietro?
Passando è nata come canzone di transizione tra un libro e l’altro, Oceans (Radici edizioni), che ne riporta il testo per intero. La canzone porta dentro il suono di quegli incontri che sanno fermare il tempo. Gli unici che contano. Il tempo, appunto, si incanala in una sequenza di quattro accordi che parte dal Fa diesis minore e lambisce Si, Mi e Re. Così parte la wave song.
“Sogno un giorno di cambiare colore / senza aver fretta di cercare (cercare) / respirando il rumore di / moli sommersi da onde concentriche…”
…fino all’ammissione finale:
“È che non son più bravo ad andare controcorrente”.
La canzone si chiude così, come un volo con ali di cera.