De Stefano: con Zucchero lo stesso destino
“Il film si apre e si chiude con l’Emilia, la terra che Adelmo ha lasciato da bambino. Un po’ come Avezzano per me, la città che mio nonno paterno Antonio ha contribuito a ricostruire dopo il terremoto devastante del 1915, dove mia nonna materna Nella ha lavorato come preside alla scuola media Vivenza per circa trent’anni e dove mio padre Gennaro si è fatto le ossa come giornalista”. A parlare è Giangiacomo De Stefano che co-dirige con Valentina Zanella Zucchero-Sugar Fornaciari il docufilm dedicato al bluesman italiano per eccellenza proiettato alla Festa del cinema di Roma e poi in sala, distribuito su 300 schermi nella Penisola. L’inizio e la fine in Emilia, si diceva, fino agli undici anni. Quando Zucchero lasciò Ronconesi si trasferì con la famiglia a Forte dei Marmi. All’epoca andava a scuola con un barattolo con la terra del suo paese da annusare quando saliva la nostalgia. In mezzo c’è il racconto di una carriera incredibile che lo ha portato a cantare con Pavarotti, Sting, Clapton, Paul Young, Brian May, Ray Charles, Miles Davis, Joe Cocker, Jeff Beck. Zucchero è anche l’unico artista italiano ad aver partecipato al Festival di Woodstock nel 1994, a tutti gli eventi in favore di Nelson Mandela e al Freddie Mercury Tribute, nel 1992. Nella sua carriera ha venduto oltre 60 milioni di dischi, di cui 8 milioni solo con l’album Oro, incenso & birra. Il racconto, però, non tralascia le sconfitte, la depressione dei primi anni ’90. “Zucchero è coerente nelle sue contraddizioni e per questo interessante”, dichiara De Stefano insieme a Zanella. “Zucchero ha anche messo in connessione attraverso la musica la cultura rurale con quella nera e americana. Un’operazione rischiosa e dalla bassissima possibilità di successo che invece ha funzionato in tutto il mondo”.
De Stefano, come è arrivato a lavorare sulla biografia di Zucchero?
Sono stato coinvolto da una casa di produzione di Verona, la Kplus film insieme a Valentina. Insieme, abbiamo raccolto molto materiale: ci sono circa 60 ore di girato e molte di più di archivio. L’abbiamo seguito in giro anche all’estero per un anno e mezzo, su e giù dai palcoscenici. E poi abbiamo lavorato per mesi in post-produzione. Non è stato facile il lavoro di montaggio.
Che storia viene fuori dal punto di vista umano?
Nella musica italiana sono pochi gli artisti che hanno, o che hanno avuto la fortuna, di vantare una carriera come Zucchero. Questi riconoscimenti sono stati messi in relazione con la sua storia privata.
Quale feedback avete avuto da lui?
È stato un crescendo. Abbiamo imparato a conoscerci a vicenda, vincendo le sue parziali ritrosie iniziali. C’è da dire che quando Zucchero ha iniziato a capire l’importanza del lavoro che stava venendo fuori è stato molto collaborativo. Del resto, lui è abituato ad avere il controllo di tutto quello che lo riguarda. Anche nella fase successiva della distribuzione è stato molto partecipativo, concedendosi a lungo a giornalisti e al pubblico delle varie sale cinematografiche. E questo, nonostante lui sia abituato a ben altri pubblici. In qualche modo, sento la sua storia un po’ come la mia.
In che senso?
Parliamo di una persona partita dalla bassa emiliana con tanti sogni e poche certezze. Anche io ho lasciato l’Abruzzo per Imola molto presto e ancora oggi faccio fatica ad avere un’identità radicata in questo o in quel luogo. Molti mi definiscono regista imolese, altri mi accostano ad Avezzano che è stata poi la città di riferimento per il lavoro di mio padre come giornalista freelance.
La vicenda umana e professionale di suo padre, scomparso nel 2008, è importante e delicata: si trovò ad attraversare dei momenti molto delicati. come ha vissuto quel periodo?
Non fu facile, ma ne parlo volentieri, perché vorrei che ci si ricordasse il più possibile di lui, magari anche con un’intitolazione pubblica. Nel 1992, mentre si stava occupando per il settimanale Visto del delitto di Balsorano fu protagonista di un clamoroso caso di malagiustizia. Convinto dell’innocenza del principale imputato Michele Perruzza, venne incastrato per ritorsione da un poliziotto, funzionario del commissariato di Avezzano, che fece nascondere un involucro contenente circa 23 grammi di cocaina sotto il cruscotto della sua macchina.
Così fece quasi 60 giorni di carcere
Fu chiaramente incastrato. Solo dopo circa un anno la verità processuale lo scagionò, condannando il poliziotto, anche se non i mandanti. Nel 2013 ho potuto ricostruire la vicenda in un documentario per la Rai. Mio padre, invece, fu insignito del Premiolino, uno fra i più antichi e importanti premi giornalistici. Proprio per questo mi piacerebbe che la città di Avezzano lo ricordasse, proprio come a lui sarebbe piaciuto un omaggio postumo a mio nonno Antonio, mia nonna paterna Rosa e alla sua attività di ricostruzione.