Born to Run: la pietra miliare del rock Usa
28 Settembre 2022 Condividi

Born to Run: la pietra miliare del rock Usa

Scarpe consumate, jeans sdruciti, capelli impolverati, giubbino di pelle scolorito dal sole e da migliaia di chilometri spesi in giro per gli Stati Uniti. Una Fender Telecaster a tracolla, un filo di barba e una canottiera che forse aveva vissuto qualche lavaggio di troppo. Così si presentava Bruce Springsteen nel 1975.

Per un artista, si sa, il primo disco è una scommessa. Il secondo è probabilmente quello più complesso, specialmente se il predecessore ha avuto successo. Il terzo è l’equivalente della pallina numero 8 a biliardo: o la va, o la spacca. E’ il disco della consacrazione, dell’affermazione su larga scala, del salto di qualità. Staccarlo equivale a compiere un pericoloso passo indietro dal quale, spesso, non si ritorna.

Dopo “Greetings From Asbury Park, NJ” (1973) e “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” (sempre 1973, uscito qualche mese dopo), The Boss estrasse il coniglio dal cilindro: “Born To Run“. Un album che col tempo divenne la più classica delle pietre miliari del rock, nonostante la sua gestazione difficile a causa di diverse problematiche interne alla band, oltre che – sorriso amaro – paure di non avere a disposizione un lavoro soddisfacente.

Il disco, stampato dalla Columbia Records il 25 agosto 1975, in poche settimane scalò le classifiche. A differenza dei primi due episodi discografici, fece breccia sul pubblico di tutte le età

Breve considerazione a parte la meriterebbe l’annata. Il 1975, per il rock, è stato un anno d’oro. Non solo “Born To Run”, ma anche “A Night At The Opera” dei Queen“, “Psychal Graffiti” dei Led Zeppelin, “Wish You Were Here” dei Pink Floyd. Ma anche “Horses” di Patti Smith e “Toys in The Attic” degli Aerosmith. Non male, vero?

Con “Born to Run” Springsteen cambiò marcia. Fu l’album della svolta, quello che lo lanciò verso il successo e che gli consentì di fare il tanto agognato salto di qualità. Fu la wild card con cui ruppe col passato, fino a quel momento vissuto tra alti e bassi, consentendogli di diventare il grande artista che ora tutti conosciamo. Il lirismo del Boss conobbe vette fino a quel momento sconosciute. La capacità di Bruce di mettere su carta emozioni e pensieri, fino a quel momento espressa a tratti e spesso in modo acerbo o, comunque, non all’altezza della fama guadagnata in seguito, rappresentò il punto di svolta di una carriera che sarebbe decollata solo dal 1975 in avanti.

L’American Dream, gli Stati Uniti come terra delle opportunità e dei sogni da coltivare e vivere con ardore, intensità e passione, sono le tematiche principali espresse nei brani. Il sogno del Boss, e di milioni di adolescenti, ragazzi, uomini, come lui, prende vita nelle otto tracce (quattro per lato nella versione lp originale) che compongono il pattern. Difficoltà sociali, amori giovanili, ribellioni, famiglie provate dalle vita di tutti i giorni: i concetti espressi da Springsteen sono quelli della working class da cui egli proveniva, che non ha mai ripudiato e per la quale, anche oggi, si batte.

In poche settimane, “Thunder Road” e la title track spopolarono in radio, ma anche tra la gente comune. Non nei saloni della borghesia a stelle e strisce, ma tra i vicoli di quartiere, nelle case popolari, nei bar del dopo lavoro. Nei cantieri e nelle fabbriche, nelle scuole pubbliche, nelle province e nelle piazzette dove i teenagers di allora si ritrovavano per discutere di sogni, ambizioni e speranze. Ammesso che ne avessero. Bruce Springsteen entrò nei loro cuori. Era uno di loro e come tale intendeva la musica. Come tale, venne amato. E’ amato.

Quel sorriso sornione, quell’energia sprigionata sul palco, quel modo di suonare ogni concerto come fosse l’ultimo della propria vita

Un carisma fuori dal comune, un’attitudine come pochi altri. Al suo fianco una delle prime incarnazioni delle E-Street Band: l’inseparabile amico Clarence Clemons al sax, Max Weinberg alla batteria, Gary Tallent al basso, Danny Federici alle tastiere, Steve Van Zandt alla chitarra (anche se accredito per i cori su “Thunder Road”). Produttore del full-lenght fu Jon Landeau, critico musicale che sono un anno prima aveva visto Springsteen esibirsi in apertura al concerto di Bonnie Raitt all’Harvard Square Theater di Cambridge, nel Massachussetts.

Il giorno dopo affermò: “ho visto il futuro del rock and roll e il suo nome è Bruce Springsteen

Appare altresì importante, però, segnalare l’ingente somma di denaro – circa 250.000 dollari – messa sul piatto dalla Columbia Records per promuovere il disco. Fu un atto di fiducia non da poco, considerato che i primi due episodi discografici dell’artista del New Jersey, pur se interessanti, mai avrebbero lasciato immaginare una così tale esplosione di appeal sul grande pubblico. Un diamante grezzo da lucidare, forse sì, ma una scommessa vinta dalla storica casa discografica a cui va riconosciuto il merito di aver creduto in quel James Dean del rock.

Elencare i dati di vendita di “Born To Run” è, scusate, superfluo e ingeneroso. Quantificare la musica, l’arte più in generale, con i numeri e con le posizioni in chart è simbolico, certamente, ma del tutto esaustivo. Quarantasette anni dopo siamo ancora qui a rendere omaggio a un album tra i più apprezzati nella storia del rock, che ha segnato il cammino di un uomo, prima ancora che musicista, capace di influenzare milioni di persone e migliaia e migliaia di musicisti. Un disco straordinario, leggendario, che ogni giorno ci ricorda una sacrosanta verità: il rock è cuore, anima, passione. Non c’è miglior formula vincente.

di Federico Falcone – fonte www.thewalkoffame.it