Terence Hill, il ritorno al passato
5 Agosto 2021 Condividi

Terence Hill, il ritorno al passato

Cappellino con visiera, camicia da film anni Ottanta, jeans stretti sugli stivali e occhi che brillano. Terence Hill scende lentamente dalla Station wagon Volkswagen con cui ha attraversato la piana di Campo Imperatore, al fianco della moglie Lori Zwicklbauer. Cinquant’anni fa, da queste parti, furono girate alcune scene simbolo di “Continuavano a chiamarlo Trinità”, sequel del film cult di Enzo Barboni, in arte E.B Clucher. L’auto raggiunge il ristoro Mucciante e si fa strada fra turisti e appassionati. C’è chi è arrivato a piedi, da poco distante.

Chi ha fatto centinaia di chilometri, come una famiglia di Ravenna, oppure come Luca e Marco Nicoletti giunti direttamente da Catania, per sperare in un autografo o in un selfie. C’è chi si è presentato a cavallo, come Massimiliano Noce, con tanto di camicia consumata e cappello da cowboy. «Il mio cavallo si chiama proprio Trinità», dice da lontano, sperando di attirare l’attenzione dell’attore. Non può mancare una Dune Buggy rossa con capottina gialla, come in Altrimenti ci arrabbiamo.

La proiezione di Continuavano a chiamarlo Trinità è in programma subito dopo il tramonto. Prima c’è il dibattito a cui partecipano Cristiana Pedersoli, una delle figlie di Bud Spencer, Sandra Zingarelli, la figlia di Italo, produttore dei due Trinità, don Samuele Pinna, saggista che ha dedicato due volumi alla coppia regina dello spaghetti-western, e Piercesare Stagni, storico del cinema e autore del libro “Il cinema forte e gentile”. Sul posto anche il sindaco dell’Aquila, Pierluigi Biondi, e il collega di Castel del Monte, Matteo Pastorelli. Un confronto moderato da Federico Vittorini, nell’ambito della Open Week 2021.

Ma nulla può iniziare senza che Terence si cimenti in decine e decine di firme da mettere tra locandine, maglie e cappelli. Negli occhi dei protagonisti scorrono le immagini del Canyon dello Scoppaturo, in particolare dell’area dove sono state girate le scene iniziali del film. Le scene della “fagiolata” per capirci. Proprio qui, nel pomeriggio, Terence Hill si è fermato, padella alla mano sul cerchio di pietre. Poi sul palco, davanti ai presenti, l’abbraccio commosso con Cristiana. «La prima volta che vidi Trinità al grande schermo», ricorda Terence Hill, «ero con tuo padre Bud e c’eri anche tu, eri piccolina».

L’attore, a tratti, è un fiume in piena. Non si risparmia alle domande che gli chiedono di raccontare i personaggi di una vita. Ora Renegade, ora Nessuno, ora Lucky Luke, ora don Matteo. E poi, ancora, Il mio nome è Thomas, il suo ultimo lavoro che appare un po’ una sintesi di tutto. «Certo», sottolinea, «Trinità è nato quasi per caso. Siamo entrati in contatto con Barboni che proponeva un western particolare, senza che si sparasse troppo. Quasi un tocco comico. Arrivò questo copione e Zingarelli ci convinse a provare. Lo riportai a casa e mia moglie ne era entusiasta. Nessuno pensava un successo del genere».

È Stagni a ricordare che il film in proiezione è stato campione di incassi per anni. Tra il pubblico anche chi c’era cinquant’anni fa, come Gino Faccia di Assergi, che si occupava del bestiame. «Chi ha addestrato il mio cavallo», sottolinea Terence Hill, «ha fatto grandi cose, visto che poteva restare immobile per ore e si riusciva a farlo partire con un piccolo cenno della bocca».

Spazio a un ringraziamento ai maestri Sergio Leone e Tonino Valerii, quest’ultimo abruzzese: «Era appassionato del suo lavoro e si vedeva». Spazio anche a qualche piccola curiosità: i fagioli li prediligeva senza pancetta e con tanto peperoncino e il fatto che il bicchiere di vino che sembrasse interminabile era dovuto al collo di bottiglia stretto.

di Fabio Iuliano – fonte: il Centro