Teatro, Fassari all’Aquila dà voce agli imprenditori traditi
Un imprenditore, un uomo, un padre. Tradito dallo Stato, ma anche dalla sua stessa vocazione. Ombre, fantasmi, sogni, paure che riempiono la sala conferenze della sua azienda sull’orlo del fallimento. Una vicenda che fa i conti con le maschere sociali e che vede nello Stato, con le sue regole da una parte e i suoi impegni disattesi dall’altra, un’entità capace di distruggere e gettare sul lastrico. Così Fausto – il personaggio immaginario portato in scena da Antonello Fassari – dà voce a migliaia di professionisti che lottano quotidianamente per mantenere salda la propria posizione conquistata con sacrifici e coraggio. Tutto questo è “Per ciò che è Stato”, in scena stasera (ore 21) e domani (17.30), al Ridotto del Teatro comunale, in anteprima nazionale per la stagione aquilana del Tsa. Una storia di prorompente attualità che vede regia e drammaturgia di Mauro Santopietro, con il supporto e l’ispirazione di Alessandro D’Alatri. Fassari, noto al grande pubblico per aver interpretato l’oste Cesare nella fiction di Canale 5 “I Cesaroni”, ma anche protagonista di numerosi film e serie tv, sarà affiancato sul palco da Alessia Giangiuliani (già sul palco della fortunata produzione Tsa “Adamo&Eva”), Antonio Tintis e Stefano Scandaletti.
Una mancata erogazione di credito accende la “miccia” all’interno dell’azienda del protagonista attorno al quale ruotano figure ben delineate: un banchiere, Paolo, capace di misurare le sue mosse, finalizzate a ottenere il controllo diretto o indiretto dell’impresa; un figlio, Mattia, complice di un pericoloso compromesso ai danni dei dipendenti dell’azienda; una figlia, Elena, che non si fa scrupoli a dare le spalle al padre. «Tutti archetipi», nelle parole del regista, «di una struttura sociale riconoscibile agli occhi di un pubblico contemporaneo, che ha ancora memoria della vicenda tutta italiana dell’Ilva o dei tanti articoli di giornale su imprenditori morti a causa di un fallimento. L’Italia è un Paese dove le difficoltà non vengono risolte, ma si consumano, lacerando le vite di coloro che si frappongono tra i problemi e la loro soluzione».
Per uno come Fassari, abituato a spaziare dai fratelli Vanzina a produzioni che riflettono la realtà dei nostri giorni in tutta la sua drammaticità, questo copione sembra quasi un vestito cucito addosso. «Immediatamente», spiega l’attore arrivato da poco nel capoluogo, «mi sono immaginato nei panni di questo imprenditore che lotta per difendere l’integrità dei suoi affari e della sua famiglia». Sì, perché, anche quando i bilanci non sono in rosso, c’è da fare i conti con il tempo sottratto a sé stessi e ai propri cari, i figli in primis, per portare avanti un progetto, un obiettivo, un sogno. Quasi per prendere sul serio l’assioma per cui “Tu sei il tuo lavoro”.
Fassari, che vuol dire confrontarsi con un testo del genere? «Lo spunto iniziale arriva da una serie di articoli scritti a ridosso degli anni Novanta, in cui vengono raccontate una serie di vicende relative al rapporto tra le istituzioni, l’industria e lo Stato che, talvolta, sovvenziona in un modo quantomeno poco limpido: alcuni sì, altri no. Ad esempio».
Un tema anche oggi di stretta attualità, si pensi al dibattito in questi giorni su Alitalia. «In questi giorni si parla di Alitalia. Qualche anno fa si parlava di Alitalia. Ancora prima si parlava di Alitalia. Una situazione che non è mai stata risolta. Noi comuni cittadini facciamo anche fatica a tenere il filo del discorso. Sembra che qualcuno si diverta ad alzarsi la mattina e a dire e far scrivere la prima cosa che gli viene in mente. Tanto per fare un esempio, c’è chi vorrebbe la nazionalizzazione dell’ex compagnia di bandiera, in un momento in cui al contrario tutti spingono per la liberalizzazione e la privatizzazione».
Dinamiche e contraddizioni che rappresentano uno spaccato del mondo industriale, come quello che portate in scena. «Non solo. Fausto, il mio personaggio, deve fare i conti con i suoi affetti. Deve confrontarsi con un fallimento non solo professionale, ma anche umano. Verrà tradito dai propri figli, da sempre abituati a vivere nell’agio e che ora invece si trovano a fare i conti con la paura della bancarotta da un momento all’altro».
Paura e nervosismo come alterano il rapporto tra padre e figli? «È un gioco di tensione, come se da un momento all’altro scoppiasse una bomba e ciascuno dei quattro personaggi in scena cercasse di fare il possibile per salvare se stesso. Solo Fausto, che comunque a cuore la famiglia, pensa non solo alla propria pelle e ai propri affari, ma a salvare “tutto il cucuzzaro”».
Una vicenda come quella da lei descritta fa venire in mente i film del grande Albertone, come ad esempio “Finché c’è guerra c’è speranza”, non trova? «Io credo che un lavoro come il nostro possa far solo bene a un teatro che più si va avanti e più sembra autoreferenziale. Il neorealismo degli anni Sessanta e Settanta ha contribuito a raccontare l’economia e la vita della nostra Penisola, magari prendendo spunto da situazioni reali che, una volta arrivate sul grande schermo, assumono contorni paradossali».
I personaggi di Alberto Sordi mantenevano contatto con la comicità pure in un racconto drammatico. così come in alcuni suoi ruoli in passato, mi vengono in mente alcune scene del muro di gomma ad esempio. è anche questo il caso? «Non direi, i dialoghi lasciano veramente poco spazio per ridere. Sordi giocava con il grottesco e i suoi personaggi apparivano quasi come caricature che si muovevano in uno spazio e una dimensione definita. Talvolta, erano proprio i paradossi che rappresentava a dare alla storia una dimensione comica».
“Per ciò che è Stato”, sia dal punto di vista della struttura, sia per i riferimenti, contiene dei rimandi alla letteratura? «Non si tratta tanto di citazioni, quanto di passaggi poetici che, specie verso la fine dello spettacolo, dimostrano quanto Santopietro conosca autori come Shakespeare».
Che rapporti ha con L’Aquila e l’Abruzzo? «Mi viene in mente la puntata dei Cesaroni che abbiamo dedicato a questa città, utilizzando come sfondo la basilica di Collemaggio. Un’altra cosa che ricordo volentieri, è quando abbiamo girato alle porte di questa regione, poco fuori, a Vicovaro, trasformando quel luogo in un borgo siciliano con tanto di lupara e scacciapensieri: è la magia della macchina da presa».