La mia Folsom Prison
8 Luglio 2025 Condividi

La mia Folsom Prison

La Casa circondariale “Le Costarelle” dell’Aquila ha ospitato l’iniziativa “Semi di speranza”, organizzata nell’ambito dell’anno giubilare. Un momento di riflessione, musica e condivisione all’interno del teatro del carcere, tra poesie scritte dai detenuti, testimonianze, interventi istituzionali e una Messa celebrata dall’arcivescovo Antonio D’Angelo.

Io sono arrivato in teatro con una chitarra sulle spalle, come faccio ormai da un po’ di tempo, per guidare il laboratorio musicale nato grazie alla collaborazione con il Cpia L’Aquila. E anche l’altro giorno, come ogni volta, ho capito che la musica qui dentro è uno spazio di libertà.
È un modo per ricordare a se stessi che si può andare oltre. Quando metti piede per la prima volta in carcere, chitarra alla mano, non puoi non pensare a Johnny Cash. A quel concerto leggendario a Folsom Prison nel ’68, alla voce roca che attraversava le sbarre. Le prime volte mi sentivo un po’ così: fuori posto, ma con una missione. Volevo portare qualcosa che andasse oltre il silenzio del carcere. Una connessione.
Poi ho capito che qui non si trattava solo di suonare. Abbiamo portato sul palco “Another Brick in the Wall” dei Pink Floyd, “Three Little Birds” e “No Woman No Cry” di Bob Marley. Brani che fuori fanno parte della storia della musica, e che qui dentro diventano specchi. Parole che parlano anche a chi sta scontando una pena. Testi che sembrano scritti apposta per rompere il muro invisibile tra il dentro e il fuori. I ragazzi del corso – sì, li chiamo così – erano tesi all’inizio. Lo sono sempre. Ma appena partono le prime note, qualcosa si scioglie. Le mani diventano più sicure, le voci escono. Non sempre intonate, ma vere. E alla fine si applaude. E anche a tempo.
Durante il pomeriggio sono stati distribuiti anche segnalibri realizzati dai detenuti. Su uno c’era scritto: “Cambiare significa iniziare a guardare le stesse cose con occhi nuovi”. È proprio così. Io credevo di venire qui a insegnare. In realtà imparo ogni volta. La musica, in questo posto, è un’ancora. È ritmo, sì, ma anche battito.
Come ha detto qualcuno, a proposito del reggae: “un battito come quello del cuore, solo un po’ più lento”. C’erano le autorità: la direttrice Barbara Lenzini, l’arcivescovo Antonio D’Angelo, la comandante della polizia penitenziaria Maria Elisa Finauro. C’erano anche don Pasquale D’Elia, cappellano della casa circondariale di Campobasso, e padre Francesco Lo Presti, cappellano all’Aquila e promotore dell’iniziativa che ha coinvolto anche la Pastorale Giovanile. Sua una frase che mi ha colpito: “La speranza ci mette su una strada in salita da percorrere insieme”. I detenuti sono stati accompagnati dalle funzionarie giuridico-pedagogiche dell’area trattamentale, Sara Conte, Antonella Petricca, Mirella Caresta, e dalla psicologa Veronica Valerio. Nello staff lavorano anche altre psicologhe come Lucilla Bernardi.
Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza il supporto della polizia penitenziaria, a partire da Massimo, che ha accompagnato i ragazzi nell’aula didattica, decorata con messaggi e disegni dedicati dai detenuti alle famiglie. L’amore che si salva nonostante tutto.