Totani, la nostra Dakar con i freni rotti
30 Gennaio 2024 Condividi

Totani, la nostra Dakar con i freni rotti

Due tende Quecha di quelle che trovi a Decathlon in offerta a fine settimana alterni, un materassino da gonfiare e sgonfiare ogni volta, un sacco a pelo. “Questo è stato il nostro hotel per 14 giorni”, scherzano i due fratelli Tito e Silvio Totani, rientrati da qualche giorno in Italia dopo una Dakar che ha testato nervi, concentrazione e resistenza alla stanchezza fisica e mentale. Le immagini di questa edizione hanno fatto il giro del mondo, specie quelle del fortunato salvataggio del camion olandese in notturna. Ma la prova in Arabia Saudita ha registrato una serie di vicissitudini che hanno reso l’arrivo a Yanbu – il traguardo finale sulle rive del Mar Rosso – tutt’altro che scontato. Dal guasto iniziale alla macchina alla perdita d’olio dal differenziale con conseguenti penalità, fino alla questione del servofreno rotto nelle ultime tre giornate di gara. “Avete presente che vuol dire buttarsi tra le dune del deserto arabico?”, spiega Silvio, storico pilota del team. “Senza freni ce la siamo vista brutta. Però alla fine siamo riusciti a tagliare il traguardo”.

L’AUTO DI GARA. I dati sul libretto riportano Nissan Patrol GR Y62, 4.800 cc benzina, 6 cilindri, 320 cavalli. Non malaccio, se solo si gareggiasse nel 2014 anziché dieci anni dopo: in questa edizione l’auto dei Totani è stata presentata ai nastri di partenza come la più vecchia in gara. Sicuramente l’unica a ponti rigidi. “Automobili come la nostra valgono qualcosa come 250mila euro”, prosegue il pilota, “poca cosa nei confronti dei top team i cui investimenti sono multimilionari e schierano veicoli da 1 o 2 milioni di euro, con una squadra di supporto composta da 140 persone, dove i gli equipaggi in gara dormono in camper o ‘Motorhome’ e non devono preoccuparsi di allestire il campo ogni volta come succede a noi”.

IL CAMPO. Già, perché quella del campo è ogni volta una sfida nella sfida per i fratelli Totani. Gli storici ricordano che i soldati romani, a battaglia finita, avevano ben poco tempo per rallegrarsi di essere sopravvissuti: a molti di loro spettava l’allestimento e il disallestimento del campo. Analogamente, piloti e navigatori che non hanno la fortuna di dormire in camper devono montare e smontare il bivacco sistematicamente, anche perché la competizione è itinerante e solo un paio di volte capita di poter lasciare la tenda nello stesso campo. “Questo è il motivo”, sottolinea Tito, il navigatore, “per cui degli equipaggi in buone condizioni e, magari, anche in buona posizione in classifica, arrivano a ritirarsi dopo tre giorni. Il ritmo della Dakar non è per tutti, anche se le cose sono molto cambiate. Il campo resta poco più che una spianata di sabbia dove sistemare i propri mezzi, ma le grandi arterie di collegamento permettono anche ai grandi ‘Motorhome’ di raggiungere gli equipaggi praticamente ovunque”.

IL CONTESTO. Tutt’altra cosa nel periodo 2009-2012, quando la Dakar si correva in Sudamerica, tra le strade di Argentina e Peru nel periodo 2009-2012. “Allora”, ricorda Silvio, “c’era un entusiasmo diverso, tutte le tappe erano partecipate, a differenza dell’Arabia Saudita dove si corre tra la semi-indifferenza del pubblico locale. Solo a Riyadh abbiamo visto qualche centinaio di persone ad attendere il passaggio dei veicoli in gara. Per il resto, ci siamo spostati in aree veramente poco frequentate. Anche le stesse strade di connessione, utilizzate per gli spostamenti fuori dalla gara, erano praticamente senza traffico, per noi l’unica cosa estenuante era di rispettare il limite di 110 orari quando eravamo fuori dalla competizione. Qui la densità di popolazione è veramente bassa, con un tenore di vita medio piuttosto elevato”. Spesso, molti lavori umili vengono affidati agli immigrati pachistani, indiani, che talvolta lavorano in condizioni semi-schiavitù. Ma questa, purtroppo, è un’altra storia.

NEL GUADO. Altra tappa piuttosto complicata, la seconda quando una svista sul libro di gara ha visto i fratelli fare “un bel volo” in un corso d’acqua. “Ci siamo dovuti fermare”, ricordano i due, “e abbiamo preso una penalità”. L’auto è stata affidata a un team di meccanici a servizio su tre equipaggi diversi, con al lavoro Mauro Gaverini, Cesare Sandrini, Luigi Vanni, Valentino Bombelli. Con loro anche il veterano Philippe Ray.

di Fabio Iuliano – fonte: Ilcentro.it