Quelle mani che ricostruiscono
La salat al-fajr – la preghiera dell’alba – te la devi portare dentro da quando esci di casa, sino a quando non rientri. Una volta in cantiere, è difficile capire da che lato sia La Mecca e le abluzioni non puoi certo farle con il gel igienizzante distribuito dai dispenser a ridosso delle transenne. Però, ogni operaio specializzato ha il suo rituale da rispettare, solo che al posto dei libri sacri ci sono i vademecum dell’Inail e piani di sicurezza e coordinamento (Psc), aggiornati più volte in questo periodo di pandemia.
Elmi e caschetti, guanti, cuffie o tappi per le orecchie e scarpe antinfortunistiche. Tutto quello che non deve mancare prima di mettersi all’opera. Il direttore dei lavori è stato chiaro. Anche qui, in un anonimo cantiere privato della ricostruzione post-sisma, in un piccolo insediamento urbano nella piana di Navelli.
Lo visitiamo insieme ad Abdula “Duli” Salihi, capocantiere di professione ma anche presidente dell’associazione culturale Riljindia. Una realtà, questa, che si propone come un punto di riferimento per gli stranieri, specie per la comunità macedone-albanese residente all’Aquila, gran parte della quale è originaria di quel pezzo di ex-Jugoslavia ora indicato come Macedonia del Nord.
L’azienda che opera nel cantiere dove ci troviamo è italiana, ma tutti i suoi dipendenti sono macedoni. Chi conosce Duli è abituato al suo sorriso, anche in circostanze tutt’altro che lineari: quando sei in prima linea nella ricostruzione post-sisma ne capitano di ogni. Eppure, neanche la timidezza sfrontata del primo sole di primavera stempera la tensione degli ultimi giorni.
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Neanche due settimane fa e solo a pochi chilometri da dove ci troviamo, due operai di una ditta impegnata nelle opere di demolizione di una porzione di fabbricato nel centro storico del paese sono morti nel crollo dell’edificio. Cristian Susanu di 42 anni, originario della Romania ma residente all’Aquila, nella frazione di Roio, e Dzevdet Uzeiri di 61 anni, di origini macedoni ma residente nella vicina a Castelnuovo non sono rientrati a casa. Proprio a Castelnuovo, la notte del 6 aprile 2009, due muratori emigrati dalla Macedonia, Refik e Damal, la cui casa crollò sotto la furia distruttrice del terremoto, persero la vita. Erano parenti di Uzeiri. I protocolli della sicurezza non sono mai stati trascurati, ma da qualche giorno le attenzioni dei datori di lavoro sono cresciute, pur nella consapevolezza che le operazioni di intonacatura in cui la ditta è impegnata al momento sono ben altra cosa rispetto a una demolizione. «Però gli occhi bisogna sempre averli aperti», sottolinea Salihi, «non puoi lasciare niente al caso».
Mentre parliamo, una gru continua a sollevare bancali in legno carichi di sacchi di cemento da una parte all’altra e c’è da tenere le dovute distanze. La costruzione su due piani non è tra le più basse del paese. Le stanze in basso, ancora spoglie, rivelano catene e tiranti, un sistema collaudato per l’adeguamento sismico. Una volta si faceva anche con i gigli. Sopra si procede con le iniezioni di cemento. L’intervento si conduce indossando tute protettive bianche che, da lontano, non sono poi così diverse da quelle che si usano in ospedale. Ma il Covid non c’entra in questo caso.
Numerose, comunque, le misure anti-contagio così come da legge 120/2020. Non mancano i dispositivi per misurare la febbre all’ingresso, così come la stanza Covid, individuata in un piccolo locale a ridosso del corridoio principale. Finire confinato lì – al di là della preoccupazione per il coronavirus – non dev’essere piacevole. Le mascherine Ffp2 e Ffp3 proteggono anche dalle polveri. Ma si lavora senza sosta in questo microcosmo che rappresenta una comunità in cui convivono tre generazioni, ciascuna con le sue vocazioni. Ciascuna con le sue aspettative. «Guarda lui ad esempio», spiega Duli, «ha più di 55 anni ed è arrivato in Italia molto prima di me. Fa parte della stessa generazione dei miei genitori, anche se è più giovane.
Loro sono arrivati in Italia con un unico obiettivo: quello di trovare lavoro e portare a casa il pane, oltre a qualcosa da spedire in Macedonia. Quelli come me hanno potuto specializzarsi, fare degli studi per ambire, magari, a lavorare anche dietro la scrivania». Il suo modo di parlare tradisce le origini balcaniche, ma sua figlia sta crescendo a stretto contatto con la città. Impossibile discernere le sue origini solo basandosi sul suo accento. «I nostri figli, quelli della terza generazione, hanno un mondo davanti», prosegue, «ma io ci tengo affinché non dimentichino mai tutto il percorso che ha fatto la famiglia».
Un percorso accompagnato dall’indifferenza, quando non diffidenza, di una città che, al di là della retorica dei giorni di dolore, non li ha mai veramente considerati come concittadini. Tuttavia, proprio San Pio delle Camere ci consegna una delle prime storie di rinascita dell’immediato post-sisma: quella di una famiglia che trovò il coraggio di rientrare in casa anche dopo qualche ora dopo la scossa, mentre la quasi totalità della popolazione della Piana di Navelli dormiva nelle auto, in attesa di trovare un posto in una delle tendopoli ancora in fase di allestimento. Per qualche giorno, una famiglia locale che abitava alle porte del paese, scelse di non rinunciare a dormire nelle proprie camere e, i letti rimasti liberi, li offrì a dei vicini di casa romeni. Il coraggio, si sa, non guarda in faccia al passaporto.