Quarantadue chilometri dentro casa? Li famo coi Pearl Jam
“Un tempo indecoroso, lo so, 5 ore e 52 minuti, ma guardate qui il mio Garmin, 42,21 km, media 8,21 all’ora, giusto il tempo di scaricare 12 playlist di musica. Con che musica ho iniziato? Con il nuovo dei Pearl Jam che ho scaricato di nascosto, si può dire?”.
No, non si può dire, quello che ho detto al mio amico Luca Prosperi dell’Ansa (almeno non lo posso dire io). Alla fine della mia maratona fatta in casa – intrapresa per riparare alla maratona di Roma cancellata dall’emergenza Coronavirus – mi ha chiesto cosa avessi ascoltato e io non ho mentito, senza riflettere che il lancio sarebbe stato ripreso da tante testate in giro per la Penisola. Chissà magari è arrivato dalle parti di Reggio Emilia, lì dove c’è Luca Villa, coeditore di PearlJamonline.it che da giorni ha avviato una campagna antipirateria dal momento che Gigaton è stato leakato da più fonti in giro per il mondo.
L’altra settimana, a piattaforma iVoox aveva pubblicato un podcast con l’ascolto integrale dell’album, con il commento di Roberto Martínez. Il contenuto era stato ovviamente bloccato dopo qualche ora. Ma il podcast è rimasto intrappolato nell’archivio del mio Redmi 7. E quale ritmo migliore per scandire i primi chilometri con le canzoni di Gigaton, da Who Ever Said a Dance of the Clairvoyants passando per Superblood Wolfmoon.
Un’ora scarsa di ritmi assortiti che ti danno la carica, fatta eccezione per canzoni riempitivo come Buckle up, la cui presenza non è assolutamente essenziale, anzi (con buona pace di Stone Gossard, autore del pezzo). A scanso di equivoci, il mio cd è in pre-order da gennaio. Preso su Amazon. Non so se mi verrà consegnato, però a questo punto sarei anche pronto a rinunciarvi qualora la mia consegna implicasse un viaggio non indispensabile per un corriere. Ci sarà tempo per riordinarlo, magari da un negozio fisico.
Le mie playlist raccontano 30 anni di carriera della band di Seattle, ma un po’ in generale di tutta la grande famiglia che negli anni è stata definita “grunge”. Come non pensare a band come Soundgarden, Alice in Chains, Nirvana, Screeming Trees, fino a guardare dall’altra parte degli Usa, a Chicago, con gli Smashing Pumpkins. Foo Fighters, soprattutto. Se pensi a concetti come adattamento o persistenza non puoi non pensare a Dave Grohl.
Due episodi in particolare, il primo è relativo alla sua scelta dopo la morte di Kurt Cobain: quella di continuare e andare avanti nella strada che con la strada aveva intrapreso. “Quando Kurt se ne andò – si è trovato a ricordare in un’intervista con Sam Jones – mi sono svegliato il giorno dopo ed ho pensato di essere fortunato di essere ancora vivo. Da quel momento ad oggi provo la stessa sensazione ogni volta che mi sveglio perché è davvero strano pensare che quella persona prima c’era ed ora non c’è più. Per me è stata una sorta di rivelazione che ha cambiato tutto. Da quel momento ho cominciato ad apprezzare semplicemente il fatto di essere vivo. In quel momento capito che avrei voluto fare qualcosa di nuovo, cominciare una band e diventarne il cantante”.
Il secondo è il mitico concerto di Goteborg. Il 12 giugno 2015, il leader dei Foo Fighters, cadde rovinosamente dal palco rompendosi una gamba e promettendo al pubblico, prima di andare in ospedale, che sarebbe tornato per concludere il concerto come poi ha realmente fatto presentandosi con le stampelle.
Quando sono in gara in situazioni critiche – a me la crisi capita fissa tra il 25esimo e il 27esimo chilometro – penso a lui, penso a Dave. Stringo i denti e vado avanti.
Un vecchio mp3 che utilizzo in alternativa ai podcast del cellulare – bisogna pur risparmiare la batteria – mi ripropone delle canzoni che non ascoltavo da un po’: pezzi di Ben Harper, Radiohead, Guns n’ Roses (chissà che fine farà il loro concerto previsto in occasione di Firenze Rocks). C’è anche Fields of Gold di Sting che mi dà il senso del viaggio anche quando non sono in movimento.
Spazio anche a qualche brano di Jesus Christ Superstar, ottimo durante la Quaresima, ricordo lo spettacolo al Sistina con Ted Neeley, Simona Molinari e i Negrita (Pau faceva Pilato). Infine, come lasciare fuori dalle mie playlist del running degli mp3 con le canzoni che hanno accompagnato Rocky negli anni, in particolare Eye of the Tiger. Chiedo a mia moglie acqua, sali, tachipirina e mi viene da chiamarla Adriana (lo so… “Abbiam donne pazienti, rassegnate ai nostri guai…”).
Non vorrei azzardare paragoni per non sembrare indelicato, però la maratona è un po’ come una di quelle cose che mentre la stai facendo soffri da cani e prometti a te stesso che è l’ultima volta. Ma poi ti scordi tutto e ci ricaschi alla prossima occasione. Berlino a fine estate?