“Babel”, Santangelo tratteggia la mappa del nuovo mondo
“Flirtare pericolosamente con le architetture segrete del mondo”. Questo, secondo lo scrittore cyberpunk William Gibson, l’unico modo per aprire una finestra sul futuro e provare a comprendere i cambiamenti che la società globale sta vivendo. Ma qual è la mappa di questo “nuovo mondo”? Quali gli scenari? L’aquilano Salvatore Santangelo, giornalista e docente universitario ha scritto un volume, “Babel” (Castelvecchi editore), per cercare di comprendere l’attuale evoluzione della globalizzazione. Evoluzione a cui si sovrappone l’emergenza sanitaria legata al Coronavirus.
Santangelo, nella scelta del titolo “Babel” sembra che lei abbia avuto bene a mente il film del 2006 di Alejandro González Iñárritu dove, mano mano che la storia va avanti, emerge il legame tra eventi apparentemente scollegati che avvengono in 3 punti distinti del Pianeta. Perché parlare di globalizzazione oggi?
«Nel libro riconosco apertamente il debito nei confronti della poetica di Iñárritu, incentrata sulla rappresentazione del dolore e sull’impossibilità di comunicare. Ci troviamo di fronte a destini sospesi su confini culturali, psicologici e geografici. E tutto ciò è una perfetta metafora della nostra contemporaneità: legami deboli, effetti potenti. Non parlerei tanto di globalizzazione, ma di globalizzazioni. Il mondo non sta fermo e nessun ordine costituito è eterno. Ciò però non ci esime da uno sforzo rigoroso e scientifico per “montare” i diversi fotogrammi in un unico quadro».
Da quali prospettive questo libro guarda la globalizzazione: da quella del battito di ali di farfalla o da quella dell’uragano che si genera dall’altro capo del mondo?
«Entrambi i punti di vista sono validi. L’impetuosa crescita economica della Cina, le tensioni costanti in Africa e in Eurasia, le rinnovate conflittualità di ordine religioso, i poderosi flussi migratori, il collasso delle istituzioni e delle pratiche multilaterali, le trasformazioni tecnologiche, l’internazionalizzazione dei mercati e le tempeste finanziarie: mondializzazione è il termine che compendia tutto ciò. Proviamo a tratteggiare una mappa di questo mondo nuovo in cui riconoscere alcune tendenze di fondo: l’impulso alla frammentazione si scontra con un orizzonte globale».
Viviamo giorni delicati in cui l’emergenza coronavirus, la cui diffusione da alcuni è stigmatizzata come un prodotto della globalizzazione, sta mettendo in discussione il modo in cui la globalizzazione stessa viene intesa. Quanto, a suo avviso, quello che avviene in questi giorni può contribuire a modificarne i paradigmi?
«Il Covid19 sarà il cigno nero che metterà all’angolo quella che Ulrich Beck ha battezzato come la “Società del rischio”. E all’attuale emergenza sanitaria, nei prossimi mesi, si unirà una recessione globale. Si tratterà di una crisi ancor più devastante di quella del 2008 perché, in questo caso, impatterà sul versante della produzione. Tutto ciò segnerà un netto spartiacque tra un prima e un dopo».
Come collega “Babel” all’altro suo volume “Gerussia”, giunto alla terza edizione in concomitanza con il trentennale della caduta del Muro?
«È come se fossimo di fronte a un cerchio che si chiude: il novembre 1989 diede il via a una “cronologia fatale”: nel 1991 si dissolve l’Urss, nel 2001 abbiamo l’attacco alle Torri Gemelle e ingresso della Cina nel Wto. Con la Brexit, con l’elezione di Trump, con il progressivo disimpegno Usa dal Medio Oriente e con il ritorno della Russia nello scacchiere internazionale sta prendendo forma un contesto totalmente diverso da scoprire e costruire con coraggio e con una buona dose di capacità visionaria».
Ancora oggi è la Siria una delle aree chiave per mettere a fuoco tutte le contraddizioni di questa globalizzazione. Qual è il suo giudizio sulla questione siriana anche in riferimento alla posizione della Turchia, della Russia e dell’Ue?
«La guerra siriana è per definizione una guerra ibrida: conflitto civile e – allo stesso tempo – teatro di scontro tra bande e milizie, nonché conflitto settario, regionale, mondiale. Assad sopravvivendo vince, così come Russia e Iran. Arabia Saudita e Qatar sono i grandi sconfitti. Lo stesso si potrebbe dire della Turchia, se non fosse che il presidente Recep Tayyip Erdogan – con uno spregiudicato riorientamento della sua strategia, e rinunciando de facto al suo obiettivo, che era la caduta di Assad – si è posto tra gli attori chiave per una futura composizione del conflitto. Anche gli Usa e i Paesi europei, per i quali, sin dal 2011, Assad aveva perso legittimità, sono da annoverare tra gli sconfitti».
Flussi di merci e capitale e flussi di persone, in un’attualità che produce disastri umanitari come quelli che stiamo vedendo in queste ultime settimane a Lesbo o in altre isole greche.
«A riguardo, occorre sottolineare che queste masse di profughi sono l’esito del ventennale processo di destabilizzazione di questa area e che Erdogan in questi anni non ha fatto nulla di diverso da quello che gli italiani hanno chiesto di fare alle diverse fazioni che si contendono il potere in Libia: arrestare i flussi migratori. Ma proprio dando a questi soggetti la titolarità di un potere così grande ne diventiamo di fatto ostaggi».