L’Aquila 2009-2019 – di sale e di sabbia
6 Aprile 2019 Condividi

L’Aquila 2009-2019 – di sale e di sabbia

C’è un tempo nella vita di una persona che non coinciderà mai col passato.  Ne porterà sempre un pezzo nella vita di tutti i giorni e si racconterà sempre al presente, usando una forma impersonale per rispetto ad un dolore che non può non essere condiviso. L’ossessione per i vetri e gli specchi può avere tempi precisi. Conta addirittura i secondi. Sessanta secondi. Sono tanti se si cominciano a contare ad uno ad uno dandogli il tempo dell’irreversibile. Un conto che non puoi fare alla rovescia. Per questo indeterminato, angoscioso. Uno, due, tre spira il vetro della televisione. Quattro, cinque, sei, il vetro delle lampadine abortisce neon. Sette, otto, nove il vetro dei lampioni smarrisce l’anima di luce. Dieci, undici, dodici, le finestre si accecano.

Tredici, quattordici, quindici, sedici gli specchi piangono ferite. Diciassette, diciotto, diciannove… Venti, ventuno… Trentatré, trentaquattro… Cinquantadue? Perduto anche il conto. Non si ha più pazienza col buio. Chiudi gli occhi. Ricordi che quando eri bambina funzionava: chiudevi gli occhi e non era successo. Non esisteva. Se non lo vedi non c’è. Ad occhi chiusi puoi immaginare anche vetri interi, la luce al suo posto. Chiudi gli occhi, apri, chiudi. È successo che le palpebre hanno fatto buio al contrario. Chiudi gli occhi per provare a riprendere i sogni che erano lì sul cuscino, tra l’orecchio destro e la federa. Niente cuscino, niente sogni. Ti ritrovi in un buco, un neo sulla faccia della terra, un tarlo appena sulla crosta del mondo.

Visto dall’alto, da molto in alto, diciamo pressappoco dal punto di vista di Dio, deve sembrare poco più che un punto nero sulla pelle di un giovanotto in pubertà. Uno spiffero di aria nella terra che… Shhhh… Silenzio.

I vetri non sanno più di trasparenza. Si aggrappano alla propria anima di sale e di sabbia. Alla loro madre, al loro padre abbracciati in uno scambio di molecole. E paiono darti sale per fare sapore di lacrime e darti sabbia per fare conteggio di un tempo che scorre. Nonostante tutto scorre. Ma non senti tempo. E non senti neppure il sale. Le lacrime verranno poi. Forse. Se sarai fortunato. Perché alcune sono rimaste dentro, nell’anima se ce n’è ancora, dentro con il respiro di terra. E si sono fatte di nuovo vetro per temperatura di fuoco. Frammenti pizzuti e taglienti da stare attenti per non farsi male. Basta un movimento distratto, tipo cercare le chiavi di casa per un automatismo appreso in una via che ti ha sempre conosciuto. Basta un odore di castagne arrostite sul fuoco, come fosse il tuo camino, oppure un rumore di carillon, che era uguale a quello che avevi sul comò, quello che era appartenuto a tua nonna e poi a te e poi. Poi? I vetri profanati chiedono compenso di vita, conforto di luce. Chiedono, forse, ad un loro Dio che mandi grazia: vetri di lampeggianti, vetri di fanali, vetri delle torce, vetri dei caschi illuminati, vetri di luce. Illuminano un disagio del fuori, di finestre senza un dentro, di specchi senza volti. (…)

Ricordo ora un tempo non mio, persa in un tu diverso, impersonale. Non sapevo più definire giorni, mesi o anni. Per molto tempo, comunque, non mi sarei più riconosciuta in uno specchio. Questa tu ambulante non vedeva più riflessi. Come se il dio dei vetri avesse risparmiato quella sventura. Una buonanotte scambiata sottovoce all’orecchio di uno sconosciuto con cui ti trovi a condividere un tempo di plastica. Il tempo sopravvive solo nella conta crescente delle case distrutte, dei feriti, degli sfollati, di uno, due, tre, quattro… 309 morti. Si conta la mancanza per eccesso. E nella lista dei morti vai cercando nomi. Anche il tuo. Perché non sei sicura di essere ancora viva. Di avere gesti da viva, sentimenti da viva, pensieri da viva.

Grazie Dio.

Dio perché.
(Riflessione sul terremoto: tratta da “La mistica della marmellata” (Tabula Fati 2019).

di Mariaester Graziano – fonte: il Centro