Nei peggiori bar dell’Aquila / 13
1 Febbraio 2019 Condividi

Nei peggiori bar dell’Aquila / 13

“Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso”. Basta mettere mezzo piede nello chalet di legno che subito hai in testa la sequenza di accordi del Fiume Sand Creek, a prescindere dalla musica proposta dalle casse del locale. Una suggestione accentuata dallo stile degli allestimenti che fa un po’ pensare alle inquadrature di Sam Peckinpah, uno dei maestri del western statunitense. La mente non può far altro che ripercorrere quel massacro nel quale persero la vita tantissime donne e tantissimi bambini delle tribù Cheyenne e Arapaho.

Era il 1864 e il governatore del territorio (non ancora Stato) del Colorado aveva idea di mettere a capo della milizia locale il colonnello John Chivington, al fine di liberarsi definitivamente del “problema” degli indiani. Chivington cavalcò il malcontento della gente contro chiunque sosteneva la possibilità di una convivenza pacifica. “Semplicemente non è possibile per loro obbedire o anche solo comprendere qualunque trattato”, diceva il colonnello a proposito dei Cheyenne. “Sono assolutamente convinto che la sola strada che abbiamo per avere la pace in Colorado sia di ucciderli tutti”.

Cambiano tempi, luoghi, contesti e circostanze, ma la storia sembra destinata a ripetersi. “I want you to kill and scalp all, little and big… nits make lice – voglio che li uccidiate e li scalpiate tutti, adulti e bambini… le uova fanno i pidocchi”. Questo era lo slogan di Chivington e la frase divenne il motto del suo reggimento. Alcuni mesi più tardi, Chivington mantenne la sua promessa: lo sterminio sulle sponde del fiume Sand Creek è quello narrato dal suono e dall’inchiostro di Fabrizio De André, che rievoca la vicenda dall’ottica di uno dei bambini uccisi.

Una suggestione che si dissolve tra le fiamme della stufa a pellet, nella stanza adiacente al bancone, dove qualcuno gioca a carte, altri parlano del più e del meno e c’è anche uno che chiede al barista di “uscire” un Long island alle 11 in punto, tanto da qualche parte del mondo saranno le cinque di pomeriggio. È lì che entra in azione Carmelo Licata e la richiesta insolita diventa per lui un invito irresistibile.

Il sogno forte è quello di fare il barman. A 22 anni non si limita a sognare: insieme alla sorella Vincenza porta avanti il locale avviato da mamma Gabriella (è tutta sua la passione per De André). In due, garantiscono una continuità oraria che parte alle 6 di mattina. Non solo, tutti i fine settimana lavora al bancone del Novecento10. Il suo orario di lavoro è da brivido: il lunedì e il martedì attacca alle 14 e finisce a chiusura (il bar è aperto anche dopocena). Mercoledì dalle 6 alle 14, giovedì stesso turno con la differenza che dalle 19 in poi c’è da cambiare divisa e cambiare locale, perché al Moon village si balla latino. Stesso schema orario venerdì e sabato, cambiano ambientazione e musica ma il bancone è sempre quello. Domenica “solo” al Sand Creek, dalle 16 a chiusura.

Se gli chiedi che tipo di droga usa per reggere questi ritmi, ti tira in ballo adrenalina, dopamina, endorfine, gaba, ossitocina e serotonina. Insomma tutte sostanze gratuite e naturali che si sviluppano lavorando con entusiasmo e intessendo buone relazioni. Non ti servono spacciatori, insomma. Certo, però, a volte un gin tonic e qualche cicchetto di Vodka Skyy non guastano. Senza esagerare però. Anche perché parte del tempo in cui non è impegnato dietro al bancone, Carmelo lo passa ad allenarsi a giocare a rugby: è mediano di mischia.

Il Sand Creek è anche il regno della musica country e delle Harley Davidson: ospita raduni di appassionati delle moto H-D che poi scorrazzano per via Ficara. Si trova poi a due passi dalla sede centrale del circolo didattico Amiternum ed è quindi frequentato da altre mamme e papà iscritti ad altri gruppi Whatsapp.

Poco più avanti c’è piazza d’Arti, uno spazio strappato al fango e al cemento, in un’area altrimenti in secondo piano per quanto rappresenti un punto strategico a ridosso dell’ospedale e del complesso universitario di Coppito. Quell’area che, per volontà di una ventina di associazioni aquilane, rimaste senza sede dopo il sisma, è stata trasformata in un’esperienza nuova e senza precedenti nel contesto aquilano.

di Fabio Iuliano – fonte: Virtuquotidiane.it