D’Alfonso e l’abruzzese
17 Settembre 2025 Condividi

D’Alfonso e l’abruzzese

«‘Sta ‘bbòne Rocche, sta ‘bbòne tutte la Ròcche». Il senatore Luciano DAlfonso, profondo conoscitore del dialetto abruzzese in tante delle sue sfumature, entra nel dibattito aperto dalla “Notte dei Serpenti” e dal suo ideatore Enrico Melozzi. «Credo che sia proprio la lingua abruzzese a renderci la fotografia più essenziale e radicale della smisurata e ingigantita operazione commerciale del format La Notte dei Serpenti: un’idea strategica di peso, pensata da un imprenditore dello spettacolo che nella vita suona e dirige anche, che ha saputo sfruttare un’onda favorevole, la sta cavalcando e ha avuto anche l’ottima idea di mettere il vestito della domenica alla sua stessa idea». Un riconoscimento al merito imprenditoriale che non impedisce però al senatore di fissare un punto: «Sicuramente quell’imprenditore, Rocco, sta respirando a pieni polmoni gli effetti dell’onda emozionale generata nei palazzi istituzionali dalla sua operazione, pienamente legittimo. Meno legittima è l’assenza di benefici per il territorio e per il dialetto abruzzese derivanti da tale operazione che, a tre anni dalla prima edizione, pure avremmo dovuto iniziare ad avvertire».

Lo sguardo di D’Alfonso torna allora alla genesi di certe narrazioni: «La Notte dei Serpenti ha sdoganato l’uso televisivo o divulgativo del dialetto abruzzese su larga scala? Non è un primato del maestro Melozzi che, copiando il modello della Notte della pizzica salentina, sfruttando una notorietà personale generata da una espressa originalità estrosa, che ha suscitato la simpatia emotiva di neonati festival locali, ha saputo mettersi su una scia fortunata costruita, tassello dopo tassello, da personaggi come il mio amico ‘Nduccio, o dal sulmonese Gabriele Cirilli, che hanno diffuso ovunque, compreso il piccolo schermo, usi, costumi, luoghi e lingua abruzzese. Senza dimenticare un certo Gigi Proietti, che aveva scelto L’Aquila per la sua scuola di recitazione e formazione di uomini e donne di spettacolo e che usava con eccezionale disinvoltura il dialetto abruzzese».

La riflessione si fa più ampia, confrontando la condizione del dialetto abruzzese con altre parlate regionali. «È innegabile che il dialetto abruzzese abbia sempre sofferto di un innato complesso di inferiorità rispetto agli idiomi delle altre regioni, come il toscano stretto, il napoletano, il pugliese o il siciliano. Fai la fila al cinema per Benigni perché la sua recitazione in dialetto è insuperabile, rivedi tutte le repliche dei film di Troisi per il suo napoletano, Checco Zalone ha fatto scoprire al mondo che esiste la Puglia e Polignano a Mare, e Fiorello sbanca tutti gli ascolti quando in tv si diverte a portare la sua origine siciliana. E allora verrebbe quasi da pensare che per rendere popolare un dialetto non importa cosa canti o cosa dici, ma chi lo fa. Come dire, è il personaggio che diventa testimonial del dialetto della sua terra, simbolo e immagine viva».
Da qui la distinzione netta fra percorsi e finalità differenti. «Non credo che sia paragonabile la professione musicale di un cantautore come Setak rispetto all’operazione portata avanti dal maestro Melozzi: diverso il pubblico di riferimento, diversa la narrazione, diversa la finalità e l’obiettivo ultimo. Setak riprende la lingua dei nostri nonni, il nostro dialetto, e la canta in modo originale, creando testi nuovi, dimostrando l’attualità di un idioma che ha superato il confine-limite, assolutamente nobile, de “lu cardill” e di “te’ lu cor’ bbon”.

Il maestro Melozzi prende “Vola, vola, vola” e la fa cantare da Al Bano o da Elettra Lamborghini, per dimostrare che tutti la possono cantare sulla spiaggia di Pescara. Non mi risulta che alcun cantante popolare abbia poi pensato di portare una nuova canzone abruzzese sul palco di Sanremo, né tantomeno di usare lo stesso “Vola, vola, vola” nella serata delle cosiddette cover. È facile cantare l’abruzzese in Abruzzo, più difficile ascoltarlo in una piazza di Firenze». L’esperienza personale diventa parte integrante dell’argomentazione. «Per chi, come me, vede nascere la propria storia personale in un’area interna della provincia pescarese, cresciuto a pane e dialetto, e che trova nella lingua delle nostre radici una inesauribile fonte di ispirazione e spesso di saggezza, ritengo che non siano le 2mila presenze di una notte su una spiaggia in piena estate a lanciare nel mondo il nostro dialetto, come veicolo privilegiato che dovrebbe generare effetti anche sotto il profilo economico-commerciale-turistico-culturale». La visione è chiara: servono strumenti diversi e un percorso lungo. «La strada è sicuramente lunga, prevede un coinvolgimento istituzionale, scolastico, culturale, esperienziale ben diverso. Sicuramente i grandi eventi in lingua abruzzese per ora hanno effetti solo per Rocco, ma per la rocca quegli stessi grandi eventi si traducono meglio in “è ‘cchiù la spêse che l‘mbrêse”».

di Fabio Iuliano – fonte: il Centro