Roger Waters saluta l’Italia con uno shot di Mezcal
Erano passati cinque anni dall’ultima volta a Bologna. Sul palco, tra i ricordi diluiti in un bicchiere di Mezcal, trovano posto aneddoti personali, riflessioni, versi spontanei che sanno trascendere. Immagini che scorrono sui maxi-schermi al centro dell’Unipol Arena. Parole che si rincorrono. Ma soprattutto un’impronta musicale che ti resta dentro.
Questo è – ed è stato per l’Italia – “This Is Not A Drill – His First Farewell Tour” di Roger Waters, primo (e forse unico) tour di addio. Uno spettacolo dove trovano spazio effetti scenici, esplosioni di luci, raggi laser e immagini forti e accusatorie, insieme a una pecora gigante e alla riproduzione del maiale “Angie”, gonfiabili che volano radiocomandati da una parte all’altra dell’Arena, quasi a creare un effetto immersivo.
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Tecnologia e denuncia sociale sin dalle primissime battute, in cui il musicista si dice soddisfatto del pronunciamento del tribunale di Francoforte sullo spettacolo del 28 maggio (per mesi a rischio di cancellazione). “Roger Waters non è un antisemita”, le parole staccano sullo schermo mentre il co-fondatore dei Pink Floyd ci tiene a ribadire che “antisemita non lo è mai stato” e che “non serve una corte per ribadirlo”. La diatriba era nata con le scene di apertura della seconda parte del concerto coi brani In The Flesh e Run Like Hell, con Waters che indossa vesti da gerarca nazista. “L’uso di costumi che fanno la parodia del Terzo Reich tedesco”, ha stabilito il tribunale di Francoforte è “un uso accettabile della licenza artistica per avvertirci tutti dei pericoli dell’attuale rinascita del fascismo in Occidente”. Una sentenza, quindi, che ha sottolineato la libertà dell’arte; anzi, ne ha riconosciuto la funzione politica e sociale.
Di qui l’incipit del concerto, quasi un mantra ormai: “Se sei una di quelle persone che ama i Pink Floyd ma che ‘non apprezza le idee politiche di Roger’ puoi andare a quel paese al bar già da adesso”. Ma quella del bar non è necessariamente una provocazione, anzi torna più volte come invito al confronto, allo scambio di idee. Del resto, il concerto è pieno di messaggi e riferimenti politici. Come quando sugli schermi che formano un muro a croce sul palco si leggono parole tipo ‘propaganda, fake news’ o accuse contro i “potenti” del mondo, contro le discriminazioni agli afroamericani, con annesso riferimento a George Floyd, o contro le violenze sulle donne in Iran e a difesa della Palestina, dello Yemen e dei diritti civili delle minoranze, anche indigene. I messaggi più duri, però, sono riservati a vari presidenti degli Stati Uniti come Ronald Reagan, Barack Obama, Donald Trump e Joe Biden, tutti tacciati di essere “criminali di guerra”, con tanto di stima di vittime a carico di ciascun mandato, fatta eccezione per Biden “che è solo all’inizio”.
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La canzone di esordio è Comfortably Numb in una versione intima e decadente, priva degli assoli di chitarra, sostituiti da urla e rumori. La distopia delle immagini accompagna urla e rumori. Dagli schermi di telefonini, guardati compulsivamente, alle vertigini del volo sui grattacieli, l’atmosfera è cupa e compressa. Quindi, un po’ di energia con The Happiest Days of Our Lives e Another Brick in the Wall (parti 2 e 3) prima di The Powers that Be e The Bravery of Being Out of Range, entrambi scritti da solista. Si arriva dunque al momento di The Bar, brano inedito al pianoforte su cui sono adagiate una bottiglia d’acqua e una di Mezcal. La canzone avrà una ripresa anche sul finale.
Una parte del set è legata alla figura di Syd Barret alla guida del gruppo dal 1965 al 1968. Dopo Have a Cigar si entra nel mood con Wish You Where Here e Shine on You Crazy Diamod (parti VI-VII e chiusura con la V). “Quando perdi una persona davvero”, dice, “ti accorgi che non è un’esercitazione”. Una curiosità: sugli schermi scorrono tante vecchie immagini dei Pink Floyd ma è ben difficile intravedere David Gilmour.
Con Sheep si torna nelle atmosfere distopiche che introducono ai temi ricorrenti, come la morte, la guerra e la distruzione, così come la critica alle politiche militari, in particolare quelle degli Stati Uniti. Dunque l’intervallo come in un film. Waters, d’altra parte, non ha mai nascosto il suo amore per il cinema, a partire da Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica. Il ritorno sul palco è nuovamente affidato ai brani e concetti di The Wall con Roger Waters vestito in pelle e occhiali da sole nelle vesti di un sanguinario dittatore che spara verso la folla. Sono quelle di In the Flesh e Run Like Hell oggetto di contestazione in Germania. Tweet, hashtag, slogan che invitano a “resistere”, al capitalismo, al fascismo, al militarismo, alla guerra”.
E c’è spazio anche per dedicare una canzone all’attivista Julian Assange, co-fondatore di WikiLeaks mentre dentro e fuori l’Unipol Arena circolano volantini di sensibilizzazione introdotti dagli hashtag #FreeAssangeNow #DropTheCharges, in cui si chiede anche la non estradizione verso gli Usa. Anche l’uscita del maiale drone supporta questa lettura dichiaratamente distopica con tanto di omaggio a George Orwell e Aldous Huxley.
Così Déjà Vu e l’inquietante Is this the Life we Really Want? che precedono un omaggio alla seconda parte di The Dark Side of the Moon, da Money a Us a Eclipes, passando per Us and Them, Any Color You Like e Brain Damage. Prima di congedarsi c’è tempo per Two Suns in the Sunset (da The Final Cut), con parole e animazioni di denuncia e riflessione sui pericoli del disastro di una guerra nucleare.
Waters evoca l’Orologio dell’apocalisse (Doomsday Clock), concepito nel 1947 come orologio metaforico che misura il pericolo di un’ipotetica fine del mondo a cui l’umanità è sottoposta: la mezzanotte simboleggia la fine del mondo mentre i minuti precedenti rappresentano la distanza ipotetica da tale evento.
Originariamente la mezzanotte rappresentava unicamente la guerra atomica, mentre dal 2007 considera qualsiasi evento che può infliggere danni irrevocabili all’umanità (come ad esempio i cambiamenti climatici). Al momento della sua creazione – durante la guerra fredda – l’orologio fu impostato alle ore 23:53, sette minuti prima della mezzanotte; da allora, le lancette sono state spostate 23 volte. La massima vicinanza alla mezzanotte è stata raggiunta nel 2023, con appena 90 secondi. La massima lontananza è stata di 17 minuti, tra il 1991 e il 1995.
Di qui, l’invito ai governanti a favorire il disarmo nucleare, in quanto ogni conflitto di qualsiasi portata avrebbe conseguenze potenzialmente fatali per tutto il genere umano. Il musicista 79enne chiama in fa un appello a Giorgia Meloni (scherzando la chiama “Melons – frutto”). Nessuna critica, le chiede solo di mediare tra le superpotenze. L’invito al bar è per tutti “con i soldi degli armamenti sosterremo gli ospedali calaresi, scuole, oppure ci prenderemo un gin tonic”.
E la serata finisce con uno shot di Mezcal con i componenti della band, in un pensiero rivolto a Bob Dylan, a sua moglie Kamilah e a Mohamed, ucciso a soli 14 anni. Dunque il toccante omaggio al fratello maggiore scomparso lo scorso anno, in una foto di famiglia del ’43 insieme a mamma e papà.
di Fabio Iuliano – fonte: www.thewalkoffame.it