Pearl Jam: Livereport da Imola
L’intro strumentale, la corsa di Eddie Vedder verso il centro del palco, un tappeto soffuso che piano piano si trasforma in uno dei riff più gettonati dal vivo. Quale modo più efficace di aprire le valvole dal palco di Imola, se non con quel “The waiting drove me mad – L’attesa mi ha fatto impazzire” posto all’inizio della strofa di Corduroy? L’attesa che è quella di tutti: dal pubblico agli addetti ai lavori dopo due anni di restrizioni che hanno messo a dura prova il settore cultura e spettacoli.
L’attesa che è anche quella di un pomeriggio assolato davanti ai Paddock della Rivazza dove al massimo puoi concederti un ‘pit stop’ nei box docce allestiti a ridosso dell’ingresso ai due settori. L’attesa che per qualcuno è iniziata anche prima, davanti ai tornelli. Tanto che un gruppo di ragazzi – per rendere giustizia al proprio sforzo – si è inventato un sistema di “autogestione degli accessi”, numerando i primi “duecento fortunati” con un pennarello e una lista anagrafica e auto-accreditandosi il “privilegio” di entrare per primi, anche se ciò vuol dire rinunciare all’ombra sin dalle 13. A lungo, quei “duecento fortunati” resteranno da soli davanti al palco semivuoto.
Il flusso dei 60mila aumenta progressivamente nell’arco del pomeriggio. Non c’è fretta per godersi la festa. Come ricorda il Resto del Carlino, se a fine maggio il ritorno di Vasco aveva voluto dire, per l’Autodromo, riprendere un discorso chiuso bruscamente a metà degli anni Duemila, lo show di ieri sera rappresenta per il circuito l’ideale chiusura di un cerchio iniziato nell’era post-Heineken.
SUPERMIKE. White Reaper e Pixies fanno il loro, in una setlist che lambisce il tramonto. Poi Ed e compagni si prendono la scena. In realtà, contestualizzando meglio, sarebbe più opportuno dire Mike & Co. In un concerto dove non mancano errori, imprecisioni e sbavature e dove – soprattutto – il tiro sui grandi classici ha, ahimé, ormai poco a che vedere con quello dei tour dei primi Duemila, la performance di McCready è il vero valore aggiunto della serata.
Assoli, groove, presenza sul palco, energia. Suona coi denti, con la bachetta di Matt Cameron, in piedi, sdraiato, con la chitarra dietro le spalle. Riesce ad incantare anche quando sbaglia, come all’inizio del bridge di Dance of the Clairvoyants, il primo dei quattro pezzi di Gigaton in scaletta, oltre a Quick Escape, Seven o’ Clock e Superblood Wolfmoon. Va riconosciuta anche l’onestà intellettuale del chitarrista che non ha mai nascosto l’influenza di Ace Frehley nell’assolo di Alive (la canzone “She” in particolare). Poco prima di suonare Alive, si presenta proprio con indosso una t-shirt dei Kiss. Apprezzata, oltretutto, la playlist pre-concerto che ha incluso Going to California dei Led Zeppelin. Una canzone che, in qualche modo, ha annunciato la presenza in scaletta di Given to Fly. E così è stato, in un altro momento magico della serata. In ogni caso, i Pearl Jam sanno sempre farsi amare dal pubblico, in primis per il loro saper essere autentici, non solo nelle scelte artistiche.
SETLIST. Una scaletta orientata su scelte rock che resta sull’ossatura di questo segmento europeo del tour con il blocco Even Flow, Why Go e Small Town, ma anche con le immancabili Jeremy, Black, Better Man, Alive e la chiusura classica in chiave Yellow Ledbetter. Sia chiaro, la magia e il rapporto con i fan restano intatti e in qualsiasi angolo dell’autodromo si avverte quell’atmosfera di famiglia che solo i Pearl Jam sanno creare, dentro e fuori dal palco. Certo, la presenza di Josh Klinghoffer ha un po’ eclissato quella di Boom Gaspar che comunque è un gran piacere rivedere sul palco. Stone Gossard, Jeff Ament e Matt fanno il loro. Al basso di Jeff il compito di trascinare la parte ritmica. Bravo Klinghoffer nelle “backing vocals” capaci di andare a cercare i punti di incontro con Vedder.
L’ITALIA. Non manca comunque qualche piccolo innesto di qualità, come Save You, Lukin, Wishlist, Do the Evolution o State of Love and Trust, magari un omaggio inconscio a quel Singles di Cameron Crowe, di recente ricordato anche da Matt Dillon, a margine di una kermesse cinematografica in Puglia. C’è anche qualche riferimento diretto all’unica data italiana di questo tour. Prima di Mfc – come aveva fatto anche a Roma nel 2018 – Vedder ricorda i suoi mesi passati nella capitale e la sue corsa in auto verso la Maremma sulle carreggiate assolate “dove viaggiavano queste mini-macchine”, sfrecciando a destra e sinistra.
“Siamo sempre onorati di suonare in Italia, questa sera è la più speciale”, dice nel suo italiano strampalato leggendo una traduzione scarabocchiata sull’immancabile foglio bianco, con tanto di indicazioni di pronuncia. “Durante il Covid sognavo l’Italia. Mi sembrava così bello, così reale. Ma poi mi svegliavo ed ero triste. Ora finalmente siamo qui. È tutto vero? E voi siete reali? Il sogno si avvera?”, scherza col pubblico. Altro vecchio adagio, il ricordo di quando era portiere all’hotel di San Diego e si prese la briga (e il rischio) di guidare la Ferrari di un cliente. Stavolta, l’aneddoto si propone come un omaggio all’autodromo Dino ed Enzo Ferrari.
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Come accadde a Trieste nel 2014, Come Back è introdotta da un momento di riflessione dopo la scomparsa prematura di un fan (aveva soli 44 anni). La storia è quella di due fratelli Luca e Andrea Di Stefano, giunta a Vedder attraverso un messaggio privato. Dopo la morte di Andrea, Luca ha scritto al frontman dei Pearl Jam che lo ha ricordato in una canzone le cui note sanno trascendere. “Non mollate, non siate tristi”, aveva detto a Trieste ricordando un amico di famiglia scomparso. “Rivolgetevi a qualcuno alla musica, a qualcosa privo di dolore, all’oceano, alla luna, al cielo…”.
ABORTO. Immancabile il disappunto alla notizia dell’abolizione negli Usa della storica sentenza “Roe v. Wade” con cui nel 1973 era stato legalizzato l’aborto negli Stati Uniti. Vuol dire che da ora i singoli Stati sono liberi di applicare le loro leggi in materia e alcuni si sono già mossi: l’interruzione di gravidanza è stata subito dichiarata illegale in Missouri e Texas. “Avere un figlio o una figlia vuol dire anche scegliere di dedicarvi la propria vita”, dice Vedder dal palco. “Ogni donna dovrebbe avere diritto a fare questa scelta in libertà. D’altra parte”, ironizza ma neanche più di tanto, “le statistiche non mentono quando attribuiscono agli uomini il 100% della responsabilità dello stato di gravidanza. Non è giusto lasciare le donne da sole ad affrontarne le conseguenze”.
(DE)FLUSSO GENERAZIONALE. La notte di Imola ha ancora molto da dire, grazie anche allo stile e all’accoglienza di una città da sempre abituata a grandi eventi internazionali. Una città che ancora oggi porta i segni di Ayrton Senna (scomparso qui quel maledetto 1 maggio 1994), le cui gesta sono rievocate anche da una serie di illustrazioni in centro. Una città che guarda anche alle nuove generazioni, con le feste nella discoteca allestita all’interno del Parco delle Acque Minerali che venerdì ha ospitato il gruppo il Pagante con le loro hit Un pacco per te, Open Bar, Portofino, Bomber e Settimana Bianca. Tutta un’altra musica in questo scontro generazionale e non solo metaforico. Provate a chiedere a quel gruppo di teenager che sembravano usciti da una puntata di Skam Italia che ha cercato di raggiungere l’ingresso della discoteca sfidando il deflusso controcorrente.
di Fabio Iuliano – fonte: www.thewalkoffame.it