Progetto Case, dal sogno all’abbandono
Gabriel si appoggia sulla transenna che dà su uno dei cortili della new town di Bazzano. Lì c’è l’appartamento a ridosso di via Mia Martini le cui chiavi furono consegnate alla sua famiglia, la famiglia Fegheta, quel famoso 29 settembre 2009. Quel giorno, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, riuscì a fare in modo che il suo 73° compleanno coincidesse con la cerimonia di consegna delle prime chiavi degli alloggi antisismici. Gabriel, oggi 23enne diplomato all’Alberghiero, era poco più che un bambino. Ma di quella circostanza ricorda tutto: tricolori, palloncini, giornalisti, curiosi. Persino il kit di benvenuto, con tanto di bottiglia da stappare e mettere in frigo.
Quel giorno, comunque la si veda, si festeggiava una risposta logistica senza precedenti al terremoto dell’Aquila. Certo, molto poco si parlava dei costi esorbitanti, dell’impatto urbanistico, degli sprechi milionari – parliamo di un affare da un miliardo e 50 milioni di euro – con difficoltà di gestione che hanno visto il Comune dell’Aquila accumulare crediti progressivi per 15 milioni di euro da incassare dagli inquilini del mega complesso da 4.500 alloggi in 19 quartieri.Al momento dell’insediamento, la famiglia di Gabriel, originaria della Romania, tutte queste cose non poteva saperle. Ma c’era chi aveva le idee ben chiare: proprio in quei giorni, l’allora responsabile del progetto Case, Gian Michele Calvi, non ebbe difficoltà a dichiarare alla stampa che il suo staff aveva tenuto all’Aquila la prima riunione preliminare già quel lunedì 6 aprile, mentre altri scavavano ancora tra le macerie.
Una corsa contro il tempo nel tentativo di garantire a oltre 25mila sfollati un alloggio caldo e sicuro in vista dell’arrivo del freddo. Negli anni, le persone sono scese a 14mila sino ad arrivare a 8mila nei giorni del decennale del sisma. Un bilancio rimasto invariato ancora oggi, visto che gli alloggi lasciati liberi da tante persone rientrate nella propria casa, una volta terminati i lavori di ricostruzione, sono stati riempiti da alcune categorie sociali o realtà associative. Certo, quella delle assegnazioni è stata sempre un po’ una lotteria. All’inizio si parlava di “algoritmo gioiello”, ma le defaillance erano diverse e i criteri di priorità erano oscuri almeno quanto quelli di chiamata oggi dal centro vaccinazioni, una volta espresso l’interesse.
Tante le persone che vivono da anni nello stesso alloggio, nello stesso quartiere. Bruno, insegnante di lettere e filosofia sulla quarantina d’anni, è restio a dire al giornale il proprio cognome. «Qui ci si conosce soprattutto per i nomi dei cani. Ad esempio», rivela indicando una passante, «non ricordo come si chiami quella signora, ma so che il suo barboncino si chiama Andrew. È passeggiando con il cagnolino a guinzaglio che interagisci con gli altri. Durante le settimane di lockdown una socialità di questo tipo è stata fondamentale, altrimenti saremmo impazziti. Questi giardini sono stati un’area protetta per tutti noi». Anche Marco Cappella, amministrativo in servizio all’Istituto comprensivo di San Demetrio, è a spasso col cane. Il suo si chiama Marley, come Bob. «La situazione in questo quartiere è peggiorata», spiega, «negli ultimi anni evitiamo di lasciare le auto nei garage.
Meglio averle a vista e prevenire furti e atti vandalici». Situazione ben nota nel quartiere di Cese di Preturo, specie in via Gian Maria Volontè, quella dei balconi crollati. «Questa è la nostra Beirut”», spiega Roberto Tinari, giovane residente della zona. «Gli appartamenti abbandonati sono meta di spacciatori e tossicodipendenti. E la situazione va avanti da anni, senza contare la mancata integrazione tra i residenti dei nuovi quartieri e quelli che abitano nelle restanti case della zona, così come l’impatto ambientale del Progetto Case. Vado a correre spesso alla Croce, una località che sovrasta la frazione, da lì sopra si riesce a vedere quanto è grande la superficie occupata dalle piastre».
Integrazione possibile, invece, nel quartiere di Sant’Antonio anche grazie alla sensibilità dei residenti che negli anni hanno preservato alcuni luoghi comuni come le aree giochi, fa notare la giovane Alessia Duraccio, laureanda in Scienze sociali. Nel progetto Case di Paganica 2, sono tante attualmente le famiglie straniere. L’operaio macedone Islami Shefki si gode qualche ora di riposo al campo sportivo insieme ad alcuni parenti e amici. La ricostruzione della città devastata dal terremoto passa anche per le loro mani.
La denuncia: un miraggio l’attesa riqualificazione
Ora che vi siete divertiti, dormite preoccupati: telecamere”. La scritta in verde sul box in cemento ai piedi della scala mobile sta lì, forse, come deterrente alle continue incursioni. Altre difese, l’ex Sercom, l’incompiuta delle incompiute, non le possiede. Concepito poco più di 20 anni fa e tirato su come centro commerciale, resta un casermone di 24mila metri quadrati esposti a chiunque e da qualsiasi lato della struttura incastonata nel Progetto Case di Pagliare di Sassa. Già ordinario di Psichiatria dell’Ateneo dell’Aquila, il professor Massimo Casacchia non trova immagine migliore per evocare il contrasto tra la vocazione originaria delle “new town” (letteralmente città nuove) e il crescente degrado tra le piastre. «Ho abitato in un appartamento della zona dal 2010 al marzo 2014», ricorda. «Un’esperienza sufficiente a cogliere delle indicazioni utili per azioni concrete, volte a rendere la periferia un luogo di potenzialità nuove e inedite». Ma quante di queste potenzialità si sono trasformate in qualcosa di concreto? Quante invece si sono arrese troppo presto al degrado? «Sono tornato di recente al mio vecchio appartamento e ho visto un disastro», rivela.
«Pavimentazione danneggiata, perdite d’acqua, mobili e lampadari a terra». Del resto, intere piastre sono state abbandonate, progressivamente, nell’arco di questi anni. Non solo quella interessata dall’incendio del 2013. Molti appartamenti restano aperti lasciando mobili, cucine, letti, bagni alla mercé di molti. Puoi entrare, rubare qualcosa indisturbato. Anche le centraline elettriche sono facile bottino. «Sta accadendo esattamente tutto il contrario di quello che doveva succedere», sottolinea Casacchia. «Sarebbe necessario – o sarebbe stato opportuno – cercare di riqualificare questa periferia con investimenti, energie, idee». Dal punto di vista della prospettiva, il professore ci ha messo del suo, suggerendo degli studi mirati sul livello di integrazione e benessere dei quartieri antisismici con il resto della città. Ha anche proposto un comitato per ciascuna new town. Ma resta sempre l’ex Sercom a ostruire la visuale. «Anni e anni di promesse a vuoto, da un’amministrazione all’altra», ricorda. L’ultima, in ordine di tempo, era relativa alla possibilità di utilizzare i fondi per l’edilizia scolastica per realizzare scuole, al posto dell’ecomostro. Ma anche questo progetto sembra perso nel tempo.