“The holy and the broken”, le due dimensioni dell’Hallelujah
È una delle canzoni di questo tempo, scelta anche l’altra sera da Jennifer Hudson per “One World: Together at home” il maxi concerto in streaming organizzato in supporto dell’Organizzazione mondiale della sanità. Hallelujah di Leonard Cohen appartiene all’immaginario collettivo, sia nella versione originale, sia nella versione che consegnò Jeff Buckley alla leggenda.
Un brano dalle vicende alterne che non conobbe subito la fama. Parole elaborate, rimodulate, cancellate, riviste. Cohen ha scritto decine di strofe per questa canzone, alcune delle quali ha cantato dal vivo nel corso degli anni. Tutte le versioni, a partire da quella originale, contengono dei riferimenti all’Antico Testamento, in particolare alla figura controversa di re Davide.
Guerriero coraggioso, musicista e poeta, accreditato quale autore di molti salmi, viene descritto nella Bibbia come un personaggio dal carattere ambivalente, capace al contempo di grandi crudeltà e generosità, dotato di spregiudicatezza politica e umana ma al tempo stesso in grado di riconoscere i propri limiti ed errori.
La canzone si apre con l’immagine di Davide alla ricerca di quell’accordo segreto e tanto gradito al Signore. “Ma a Te della musica non importa poi molto, vero?”, chiede Cohen. È così che Davide si ritrova d’improvviso, a comporre l’Alleluia senza sapere perché, e senza sapere come. Un re confuso (difficile tradurre “Baffled“), dal compito che gli viene richiesto e dalle sue contraddizioni.
Ecco che la seconda strofa ci porta a un esempio raccolto dal libro di Samuele: qui Davide vede Betsabea, sposa del generale Uria, dalla terrazza e se ne innamora. Farà di tutto per schierare in prima linea il generale in una battaglia che sarà fatale a quest’ultimo. Quindi l’adulterio, un peccato che verrà perdonato, anche se a pagare sarà il primo figlio della coppia. Nello spazio di un paio di versi, Betsabea diventa Dalila che rubò a Sansone il segreto della sua forza. Sansone come Davide diventa vittima della sua lussuria, delle sue stesse passioni. Ma sempre come un personaggio predestinato da un copione che non ha scritto lui. Come i personaggi dell’Iliade e dell’Odissea. Come il Giuda raccontato in Jesus Christ Superstar.
Di qui, Cohen si identifica attraverso la ricerca della parola di Davide e di Sansone. Un verbo che si leva in un’alleluja, ma un verbo che fa i conti con la carne. Un’alleluja sacra e una profana, “the Holy and the Broken“. E cosa cambia, agli occhi di Dio, se sia più l’una o più l’altra?
Una seconda versione, tra quelle che ricordiamo, fu incisa dal vivo nel 1988. In questa occasione i versi furono rimodulati fino a dare un effetto criptico, oscuro, misterioso persino alle prime strofe, lasciate invariate. Quelle stesse parole che, secondo Alan Connor della Bbc, esprimono “una versione biblica e una secolare, ci portano attraverso un immenso spettro di luoghi emozionali, con le diverse alleluia ad esprimere disperazione, estasi sessuale e devozione religiosa”.
Dorian Lynksey del Guardian scrisse che i versi del brano “abbracciano in modo criptico i temi dell’amore, del sesso, della violenza, della religione e dell’atto stesso di scrivere canzoni”.
Cohen stesso dichiarò che “La canzone spiega che diversi tipi di alleluia esiste, e tutte le alleluia perfette e infrante hanno lo stesso valore. Si tratta di un desiderio di affermazione della vita, non in un qualche significato religioso formale, ma con entusiasmo, con emozione. So che c’è un occhio che sta guardando tutti. Un giudizio che valuta ogni cosa che facciamo”.
Religione e spiritualità ci fanno guardare il mondo con occhi diversi. Nei giorni scorsi è andata in onda la puntata di Lessico Civile in cui Massimo Recalcati ha approfondito il tema dell’ignoranza, parlando anche di fondalismi religiosi sulla scia dell’eredità culturale dello psichiatra, psicanalista francese Jacques Lacan.
“Atteggiamento fondamentalista”, si è trovato a dire lo psicologo, “è quello che vede il nostro come un mondo fatto di polvere in cui siamo cadaveri ambulanti, destinati a morire. Una prospettiva in in cui ‘la vera vita non è questa vita ma oltre’. Questo pensiero comporta un certo disprezzo nei confronti della realtà. Però”, ha aggiunto Recalcati, “si può pensare che l’atteggiamento religioso suggerisca un atteggiamento diverso nei confronti di questa vita che non è da considerarsi come qualcosa in meno rispetto alla vita eterna. Si può pensare a questa vita come un miracolo in sé e dunque, l’atteggiamento religioso è porre la vita come mistero, miracolo, meraviglia. Sono due atteggiamenti differenti, il primo subordina questo mondo a un altro, il secondo fa di questo mondo l’esperienza di un mistero, l’esperienza di un assoluto meraviglioso”.
Jeff Buckley realizza una versione eccezionale di Hallelujah nel 1994 per l’album “Grace”. Omette le due strofe della versione originale che fanno riferimento alla redenzione per porre l’accento sulla dimensione intima in cui versi come “I used to live alone before I kenw you“, scritti forse da Cohen per la sua Marianne, risuonano qui con un un’eco meravigliosa.
Lo stesso Buckley dichiarò in un’intervista che «chiunque ascolti chiaramente Hallelujah scoprirà che è una canzone che parla di sesso, di amore, della vita sulla terra. È un’ode alla vita e all’amore».
di Fabio Iuliano – fonte: TheWalkofFame.it
Foto copertina: Music Off