Cento chilometri del Passatore, la nostra Long road
29 Maggio 2019 Condividi

Cento chilometri del Passatore, la nostra Long road

Romagna solatia,
dolce paese
cui regnarono Guidi
e Malatesta, cui tenne pure
il Passator cortese,
re della strada,
re della foresta”
(Giovanni Pascoli nell’ultimo verso della poesia “Romagna”).

La nostra “Long road” parte da gennaio. Fabrizio Dell’Isola, ex compagno di scuola e mio maestro inconsapevole di resilienza si trova a casa per la festa di mio figlio. Mi fa: “A maggio vado a correre il Passatore… 100 chilometri tra Firenze e Faenza”. D’istinto gli rispondo quello che poi mi sentirò rispondere praticamente ovunque nelle settimane successive: “Tu stai fuori di capoccia”. Ma è proprio nel dirlo che mi rendo conto di aver voglia di provare a confrontarmi con un percorso dalla distanza, altimetria ed escursioni termiche ben oltre la portata delle mie gambe.

Detto fatto.

“LA CAPOCCIA”. Provo due o tre allenamenti da solo e mi rendo conto di aver bisogno di affidarmi a una preparatrice atletica, anche in vista della maratona di New York di novembre. Paola Federici accetta e inizia a indicarmi tratti in salita dalla pendenza analoga alle curve prima e dopo Fiesole e al passo della Colla. L’Aquila è circondata da montagne e, trovare dei dislivelli compatibili, non è poi così difficile. L’allenamento più duro è solo mentale e anche rispettare tutte le sedute diventa parte integrante del programma.

Fabrizio lavora in parallelo e si concentra sulla lunga distanza. Ad aprile finisce la Maratona di Milano con un tempo importante, qualcosa come 3 ore 19 minuti, ma torna a casa con un ginocchio malmesso. In compenso, io continuo ad aver problemi con un polpaccio dolorante. “Quello che viene ci prendiamo”, ci diciamo a vicenda. E così sarà.

LA VIGILIA – Arriviamo a Faenza con Francesco Museo (il ciclista designato per l’assistenza) il giorno prima del via e viviamo da lì il pre-gara. Conosciamo persone meravigliose come Pietro Clementi, il mitico Pirì. È lui, tra l’altro, a evitarci di parcheggiare in zona rimozione. Chissà dove avremmo ritrovato la macchina. Sulla piazza di Faenza, l’aperitivo della vigilia è scandito dai selfie con Nikolina Sustic. Fabrizio cerca Giorgio Calcaterra e altri campioni a cui ispirarsi. Io cerco e trovo la mia immagine di forza in una madre sull’ottantina che porta sua figlia, cinquantenne e in carrozzina, in pizzeria. Per questo faccio fatica a stare dietro ai suoi calcoli, alle sue proiezioni, passaggio dopo passaggio.

Con la mente sono altrove. Dopotutto, per me i chilometri sono come anni che scivolano sotto l’asfalto, cento come quelli che uno si aspetta di vivere: se fai questa gara per la prima volta, una parte li percorri affidando la tua coscienza alle orme di chi c’è già stato e ti consiglia di accelerare o rallentare a seconda dell’altimetria.

PRONTI… VIA – La partenza in piazza del Duomo vale da sola il prezzo del biglietto. Tante mani a cui dare il “cinque”. Una città già in clima di Firenze Rocks. Rimpiango di non avere con me l’ukulele. Fabrizio ha fretta e si sgancia poco prima dell’inizio della salita verso Fiesole. Io mi tengo caro il mio adagio Zen “Never hasten your pace – mai affrettare il passo”. Piano piano si fece Roma, piano piano si farà Faenza. Francesco cerca di rendersi disponibile per l’uno e per l’altro, ai punti di ristoro che precedono la Colla. È abituato a esperienze di questo tipo e ha fatto parte del crew – come noi del resto – di un ciclista alla Race Across America, da un capo all’altro degli Usa. Con noi doveva esserci anche Andrea Federico, ma un’influenza lo ha costretto a letto.

Chilometri come anni: otto e ripenso alle prime corse al campetto sotto casa. Dieci e mi vengono in mente le Olimpiadi di Seul ’88, quelle con Ben Johnson squalificato e Gelindo Bordin che vince la maratona. Poco più avanti ci sono le notti magiche di Italia ’90 con la mia maglietta artigianale azzurra sulla quale mi ero fatto cucire il 19 di Schillaci. Quindi, le scuole medie e i bulletti di quartiere che solo con un secchione come me potevano prendersela. La discesa inizia solo dopo i 16 e Vetta delle Croci mi fa pensare alle estati alla spiaggia delle barche, a “Stella” la mia chitarra.

“Cazzo, i cancelli orari”. Un pensiero mi riporta sulla gara: il timore di non aver fatto caso ai punti intermedi di passaggio obbligatorio. Praticamente l’arco del check point abbraccia tutta la strada, c’è da impegnarsi per mancarlo. Ma cosa ne vai a sapere. Accendo il telefono e mi metto a stalkerare tutte le persone a cui avevo lasciato i riferimenti del tracking. “Oh raga’… non è che potete vedere se sto transitando a tutte le time station?”, dico in un audio che inoltro a ripetizione. Mi tengo il dubbio fino a Borgo San Lorenzo, quando Andrea da casa mi comunica che è tutto regolare. “Scusa, ma avevo questa pippa mentale”, gli dico. “E in gara, le mie pippe mentali vanno assecondate”. Come lo scorso anno, all’Ironman 70.3, quando, nella prova del ciclismo, ero convinto di avere il pettorale di colore diverso dagli altri concorrenti.

Andrea mi dice anche che Fabrizio sta trottando ed è 300esimo nella classifica provvisoria. Il caldo si fa sentire, ma trovo giovamento da piccole ricompense lungo il percorso, come l’acqua fresca regalata dai ragazzi del punto Arci. Una gran cosa, se solo penso che se fai una corsa della mia parti, al massimo ti imbatti in un banchetto per la raccolta firme pro-castrazione chimica… mala tempora currunt.

E poi gli arrosticini abruzzesi, a ridosso della Colla. Oppure, un ragazzo coi rasta e l’altoparlante portatile che spara i Red Hot Chili Peppers, poco prima di Marradi. Infine, la fortuna di condividere una gara con gente come Constantin Bostan, un atleta che ha perso sì una gamba, ma non la voglia di portare a termine di inseguire il Passatore. Faccio un pezzo di salita alternando corsa e camminata insieme a un signore piuttosto avanti con gli anni. E con una ragazza non vedente scortata dal suo team.

Alla Colla apprendo che Fabrizio è caduto per un crampo provocato da una ginocchiera, ma comunque si è rialzato e continua a correre. Avrà crisi in un altro paio di occasioni, con tanto di colpi di sonno. Ma chiuderà col tempo di 13 ore e 18 minuti.

Per non saper né leggere né scrivere, mi faccio massaggiare due volte, così da affrontare meglio la discesa e la notte. La parte ignota della gara. Parafrasando il mio amico poeta Ugo Capezzali, “non importa quanto sia forte la pioggia, ma la pelle”. Per tenermi su col morale, visto che la musica con le cuffiette ce l’hanno vietata per regolamento, vado avanti a battute idiote come “Avete visto il Passatore?”. Parole ripetute come un mantra a tutte le persone che incontro.

Tutto bene fino a  Fognano dove approfitto dei cento metri di dislivello negativo per arrivare al cartello degli  85 chilometri con la possibilità di chiudere sotto le 15 ore. Ma faccio i conti senza l’oste. Gli ultimi chilometri mi fanno bruciare tante energie e da Brisighella in avanti non sono più capace di correre: il cervello è riuscito a convincere le gambe che è meglio camminare. Strana cosa trovarsi al volante di una macchina prestante ma avere un conducente che è interessato solo a risparmiare benzina.

GLI ANGELI DI CALTAGIRONE. Cammino lento, lentissimo, fino a quando non incontro Francesco Marotta e Daniela Costanzi, siciliani di Caltagirone (chissà perché quando me lo dicono mi viene da pensare a Pamela Prati), a ridosso dei dieci chilometri all’arrivo. Mi vedono in affanno, potrebbero darmi una pacca sulle spalle e tirare avanti. Invece decidono di adottarmi. “Andiamo avanti tutti e tre insieme e magari riusciamo a tenere l’orologio sul quadrante del 15”, fa Francesco. Parlando, scopro che neanche Daniela ce la fa più a correre, tanto da pensare al ritiro.

“Sono riuscito a convincerla a resistere, con la promessa di camminare sino a Faenza”, spiega Francesco. Una promessa che si rivela vincente. Arriviamo che è già mattina. Butto un occhio al cellulare. Maurizio Dionisio, vicepresidente di Atletica Abruzzo L’Aquila – la nostra società – si complimenta con Fabrizio sulla chat della società e chiede notizie di me. Gli rispondo in diretta, con un selfie scattato con dietro il tabellone dell’arrivo. Lo scatto, però, lo cancello subito dopo per pudore e rimando una foto non appena riesco a sciacquarmi la faccia.