Portera al Sanremo Rock: “Negli anni ’70 era diverso”
14 Dicembre 2018 Condividi

Portera al Sanremo Rock: “Negli anni ’70 era diverso”

E un bel giorno “quel gran figlio di puttana” di Ricky Portera si trova a passare per Celano. Sì perché, come in molti sanno, le parole della canzone di Lucio Dalla, resa celebre dagli Stadio, gruppo di cui Portera è fondatore e storico chitarrista, sono a lui dedicate.  L’occasione è la 32ª edizione del Festival Sanremo Rock. Un appuntamento reso possibile grazie al manager dello spettacolo, Tony Orlandi, esclusivista del marchio della kermesse per l’Abruzzo. L’appuntamento è in programma domani all’auditorium Fermi alle 21. Otto i gruppi attesi sul palco.

Si tratta di Tanto rumore per nulla, Crabby’s, La fabbrica di wafer, Bad medicine, Gradisca, Maxwell Pies, Matteo Farge e gli zingari nel bosco, Soud Zero. Le esibizioni saranno valutate da produttori musicali, discografici e altri addetti ai lavori. Diversi gli ospiti della serata tra cui il maestro Angelo Valsiglio, Valentina Carati, vincitrice del festival Una voce per l’Europa, il soprano Cinzia Dominguez, gli Ekynos (band electropop veneta), Simone Gamberi, vincitore del premio Glopal Label Records, Leo Giunta, responsabile Sanremo Rock, in un appuntamento coordinato dalla direttrice artistica Michela Olivieri, col supporto del sindaco Settimio Santilli e dell’assessore alla Cultura Tony Di Renzo.

Portera, legato a Orlandi da una lunga amicizia, sarà un punto di riferimento tecnico per la giuria. L’ingresso è gratuito. «Sono felice di tornare in Abruzzo, dove ho suonato più volte nella mia carriera», dice Portera, la cui storia personale è stata raccontata – e in parte romanzata – dalla giornalista Paola Pieragostini, in un libro dal titolo evocativo “Ci sono cose che non posso dire” (Armando Curcio Editore). Un racconto, una rivelazione, un tributo a un musicista oggi sessantenne di cui l’amico Dalla amava dire: «Tu sarai il mio chitarrista preferito. Anche in paradiso».

Portera, perché il libro con la sua biografia ha questo titolo così particolare? 
Nella mia carriera ho avuto delle collaborazioni importanti che hanno contribuito alla mia formazione musicale. Ho avuto la fortuna di crescere sulla scena emiliana dove ci si faceva le ossa suonando nei locali da ballo. Ma sono tanti i bicchieri amari che ho dovuto ingoiare in carriera, così come tanti gli aneddoti che ho dovuto a lungo tenere per me e che, con le attenzioni del caso, ho cercato di far emergere nel corso della chiacchierata con la giornalista del Resto del Carlino.

Un percorso a ritroso tra le pietre miliari della sua carriera, attraverso innumerevoli esperienze live e studio con Eugenio Finardi, Loredana Bertè, Gianni Morandi, Ron, Paola Turci, Francesco De Gregori, oltre a Dalla e agli Stadio. Che atmosfera si respirava negli anni che hanno segnato l’inizio della sua bella carriera?
Era tutto diverso. C’era un’energia dentro e fuori i locali e noi vivevamo con la stessa filosofia delle nostre canzoni. Bastava una chitarra e uno zaino per partire per ovunque e fare serata. Era lo spirito del rock.

Che cosa resta oggi di quello spirito e di quel rock? 
Non molto, purtroppo. Il rock, così come lo abbiamo concepito iniziando a suonare, è finito negli anni Settanta. Mi lasci spiegare: negli anni Ottanta si sono fatti notare dei musicisti del calibro di Eddie Van Halen o altri guitar hero. Ma arrangiamenti e produzioni discografiche hanno dovuto fare i conti con le logiche del mercato imposte dalle etichette, fino poi ad arrivare ai talent degli ultimi anni che hanno finito di rovinare tutto. Anche le discoteche di oggi non sono più le stesse.

Beh, questo appare evidente, anche alla luce di fatti di cronaca come quelli di Corinaldo. A tal proposito, che idea si è fatto della trap e del successo di gente come Sfera Ebbasta? 
Non voglio discutere della volgarità o meno dei testi. Ogni epoca è stata accompagnata da gente che ha portato avanti messaggi più o meno forti. Ma questo non ha intaccato il valore della musica in sé. Quello che rilevo, tuttavia, è la bassa qualità di chi fa rap – e ora trap – almeno in Italia. Spesso magari perché non sa cantare. Tutt’altra storia, rispetto alla qualità dei colleghi statunitensi, capaci, attraverso i ritmi campionati e le parole, di veicolare messaggi e contenuti in grado di ispirare generazioni.

di Fabio Iuliano – fonte: il Centro