Il motivo che mi ha spinto a leggere “Lithium 48” è stato il genere distopico. Io amo i romanzi distopici, sia le pietre miliari di Orwell, Bradbury e Huxley, sia i più recenti distopici con contaminazioni YA. Non è lo scopo di questa recensione perdersi nelle caratteristiche della distopia né analizzarne le varie sfumature, ma era una premessa importante da fare: io amo i romanzi distopici. La ragione per cui era così importante dirlo è perché “Lithium 48” non è un romanzo distopico. Più nel dettaglio, non è un romanzo e non è distopico. Se della prima evidenza ci si può rendere conto subito andando a guardare il numero di pagine, che rende il testo più vicino a un racconto lungo o al massimo una novella che non a un romanzo, per la seconda bisogna aspettare la fine della lettura.
Fino alla fine, in effetti, la svolta distopica potrebbe arrivare. La narrazione alterna infatti capitoli nel presente, in cui il protagonista è rinchiuso in una struttura che potrebbe far pensare tanto a una clinica psichiatrica quanto a una struttura di contenzione di altro tipo che ben ci starebbe in una società distopica, ad altri capitoli che ripercorrono le ultime ore prima del suo fermo. Assieme al protagonista, che si risveglia con un vuoto di memoria, ricostruiamo quindi la storia. Compare così la Parigi del 2002 (la nostra Parigi del nostro 2002), viviamo la quotidianità del ragazzo, sentiamo il suo amore per la musica e, procedendo con la lettura, vediamo la sua crescente paranoia di essere spiato e seguito. Ed è qui che potrebbe arrivare la tanto attesa svolta distopica. Ed è qui che invece non arriva, frustrando le aspettative del lettore.
Perché “Lithium 48” racconta la realtà, non la distopia. È una realtà vista dagli occhi di un ragazzo scosso dagli eventi dell’11 settembre, ciò che forse serviva alla sua paranoia per sbocciare, il trigger per una psicosi latente. È una realtà fatta di musica, con i brani delle canzoni che accompagnano i pensieri e le azioni del giovane. È una realtà fatta di luoghi, reali e descritti con estrema cura per i particolari. È realtà. Accettato questo, con più o meno facilità, non resta quindi che godersi la lettura di questo racconto di narrativa, a cui (se proprio vogliamo) possiamo affibbiare l’aggettivo contemporanea.
Si rivela una lettura piacevole, va detto, impreziosita da una scrittura capace di creare una bella atmosfera, di far arrivare al lettore le percezioni (distorte) del protagonista e la sua confusione, anche grazie a una buona gestione della tensione emotiva, e capace di dare un buon ritmo e una buona scorrevolezza anche laddove l’azione latita. Visto però l’esiguo numero di caratteri, sono poche le parti in cui non succede qualcosa. In queste, tuttavia, l’autore si concede forse qualche elucubrazione di troppo che poco c’entra con il personaggio e con la storia e che dà l’idea di parentesi aperte per allungare il testo, per inserire momenti di riflessione o per esprimere il pensiero dell’autore. La narrazione in prima persona mitiga per fortuna questo effetto, facendo passare questi momenti attraverso il filtro del protagonista.
Tuttavia, proprio perché è il protagonista il vero e proprio cuore della storia, mi aspettavo un approfondimento maggiore sia della sua personalità, di cui si conosce molto poco ad eccezione della passione per la musica, sia del suo contesto sociale, di cui si sa ancora meno. In particolare, non è ben chiaro in quale momento né come né perché passi dal vivere normalmente la propria vita alla certezza di essere spiato e parte di un immenso reality alla Truman Show. Lo stesso alone fumoso resta anche attorno ad alcuni passaggi, sia introspettivi (come ad esempio la parentesi sulla religione) sia d’azione (come ad esempio il furto dell’auto da parte dell’uomo con una gamba sola, relegato a poche righe e di dubbia funzionalità), e stonano molto se paragonati alla puntigliosità con cui viene invece descritta l’ambientazione geografica e alla cura riservata ad altri dettagli, che in qualche caso sfiora addirittura il manieristico.
Attenzione, ad esempio, alla scelta fin troppo raffinata di lasciare i discorsi diretti in francese, senza l’ausilio di note di traduzione: per quanto possa essere caratterizzante, rischia di non essere apprezzato da chi non conosce la lingua che, oltre a non poter seguire il dialogo, si sente tagliato fuori dalla storia. E non è mai bello tagliare fuori dalla storia chi sta dedicando il proprio tempo a leggerla.
Se mettere a disagio il lettore sottolineando le sue mancate conoscenze non è bello, lo è ancora meno mettere in discussione la sua capacità di comprensione del testo andandoglielo a spiegare nel finale. Discutibile, a mio giudizio, la decisione di inserire nell’epilogo la spiegazione dell’ovvio con l’interpretazione dei fatti appena letti, che si capiscono benissimo anche senza che l’autore metta sul naso del lettore i suoi occhiali.
Il giudizio su “Lithium 48” passa quindi inevitabilmente attraverso cinque fasi ben distinte: il primo momento di illusione di distopia, il crollo di questa illusione, l’accettazione di leggere un racconto di narrativa, l’apprezzamento per un testo che in fondo è stato solo collocato sullo scaffale sbagliato, l’irritazione del finale “spiegato”. È un giudizio tutto sommato positivo per una storia che forse avrebbe necessitato di un (bel) po’ di spazio in più, perché la sensazione è quella di aver lasciato per strada degli elementi fondamentali per poter fare di questo buon racconto un ottimo romanzo.