L’Aquila, la ricostruzione ha le mani di Marco
La ricostruzione non ha quasi mai i volti della classe politica, imprenditoriale o quello dei portatori di interesse chiamati a fare scelte importanti nell’ambito della scansione di tempi, mezzi e risorse a servizio dei vari cantieri. Protagonisti della ricostruzione post-sisma sono anche e soprattutto gli operai impegnati quotidianamente in prima linea. Punto di forza delle fotografie di Claudia Pajewski e del suo libro “Le mani della città”, presentato mercoledì nella sede del rettorato Gssi (ore 18.30), sono le storie personali di alcuni degli operai ritratti. Il volume si chiude anche con delle testimonianze raccolte in prima persona, questa è la prima: la storia di Marco, 38enne aquilano, esperto nell’installazione di impianti idraulici.
«Ho iniziato per caso a diciassette anni», racconta, «la scuola non faceva per me e l’avevo lasciata. Cominci come operaio generico, guardi e impari, poi aumenti di livello e ti danno una qualifica, tipo idraulico, saldatore, imbianchino. Alla fine ti specializzi. Lavoriamo dalle 7.30 alle 16.30, a volte facciamo gli straordinari, ogni tanto si lavora di notte. Prima del terremoto ci mandavano spesso in altre città». Poi quella notte in cui è cambiato tutto. «Tutta la mia famiglia è rimasta», spiega, «ma nel 2009 parecchi sono scappati. Casa nostra per fortuna ha resistito, è una struttura in muratura con blocchi di cemento. Per un paio di mesi abbiamo dormito nell’orto per paura delle scosse. Mio zio invece non ce l’ha fatta, non è stato il terremoto, è stato il dopo. Gli volevo bene, aveva 94 anni e stava in forma, casa sua era messa male ed è venuto a stare da noi, tra le tende e il garage.
Un giorno ha deciso che voleva rivedere casa sua, è entrato, è svenuto e ha sbattuto la testa. L’abbiamo portato d’urgenza al pronto soccorso, poi con l’elicottero a Pescara perché qui non c’era posto, ma è morto dopo un mese di ospedale». Un legame speciale quello di Marco con la montagna. «Ho sempre amato la montagna, è una passione che ho preso da mio padre», sottolinea, «quando posso vado sul Gran Sasso, sul monte Camicia, anche sulle Dolomiti. Da piccolo volevo fare l’alpino, ma ho perso la mia occasione d’oro, è successo quando avevo diciotto anni e mi hanno chiamato per il servizio militare. Avevo fatto domanda per entrare e aveva funzionato, mi avevano preso senza alcuna raccomandazione. Il problema è che dovevo aspettare il congedo, e poi altri tre mesi, ma non ho resistito perché dopo un anno di servizio pensavo solo a congedarmi, ero giovane. Ancora mi mangio le mani, era il mio sogno e l’ho sprecato, magari oggi sarei stato maresciallo chi lo sa?». Il resto è storia di questi giorni. «Con questa ditta mi trovo bene, sto con loro dal 2002. A volte penso che vorrei sistemarmi meglio, guadagnare di più, magari mettere su famiglia. Per questo un paio di anni fa mi sono deciso e sono andato alla scuola serale per il diploma di geometra. È stata una soddisfazione». (fab.i.)