Charlie Parker, il jazz e L’Aquila
di Giuliano Di Tanna – Sono anni che il jazz vive una sorta di seconda vita in Europa, lontano dall’America dove è nato. In particolare in Italia, la musica afroamericana è diventata una colonna sonora delle nostre estati e uno strumento per raccogliere e tenere insieme il desiderio di fare qualcosa per il prossimo, come accade, in questi giorni, con la maratona di concerti per le popolazioni colpite dal terremoto, che culminerà, domenica, all’Aquila. Tutto ciò non ha nulla a che fare con le radici di questo genere che affondano nella rabbia dei neri americani. Da tempo, infatti, il jazz è diventato la musica classica americana.
Questo significa, come spiega Arthur C. Brooks, in un bell’articolo su Charlie Parker, apparso nei giorni scorsi sul New York Times, che l’improvvisazione, anima del jazz, è sempre imbrigliata dentro rigidi schemi melodici e di accordi, che ricordano le leggi morali che dovrebbero guidare le nostre vite. Norme di quella moralità che, ricorda Brooks, secondo Einstein, è «della più alta importanza, non per Dio, ma per noi». La tentazione di dimenticare quei limiti ed enfatizzare la libertà d’improvvisazione è rischiosa quando il jazz è abbinato a una materia delicata come la ricostruzione post-sisma. Per tenere insieme le due cose è necessaria una perizia straordinaria. E, si sa, non tutti sono bravi come Charlie Parker.