Piero Pelù all’Aquila: “Voglio vedere questa città di notte”
Non molti lo ricordano, ma qualche settimana dopo il sisma del 6 aprile, Piero Pelù si presentò all’Aquila a bordo di un’auto improbabile. Una visita silenziosa, fuori dal coro e, soprattutto, fuori dal mainstream della Protezione civile targata Bertolaso & Co. che in quei mesi aveva fatto transitare nel circuito delle tendopoli artisti di ogni genere da Claudio Baglioni e Giovanni Allevi, passando per Gianni Morandi, Carlo Verdone, Giuseppe Tornatore, Roberto Benigni, fino ad arrivare a Ennio Morricone e Riccardo Muti. Tutti ben annunciati e ben scortati da giubbe colorate, e con al seguito uno o due funzionari tra i più alti in grado della Protezione civile a spiegare le dinamiche della ricostruzione e dell’assistenza alla popolazione.
Pelù no. Scelse la semi-clandestinità, affidandosi a qualche associazione locale del campo del Globo, una delle poche aree di accoglienza che è rimasta fuori dalle ferree dinamiche che ne regolavano gli accessi e la comunicazione all’interno. «Volevo arrivare qui e rendermi conto di persona di quello che era successo all’Aquila, non volevo avere filtri per vedere e raccontare la realtà con i miei occhi, come fa Erri De Luca», spiega Pelù chiamando in causa lo scrittore partenopeo che autore della sceneggiatura cortometraggio “Tu non c’eri” che vede tra i protagonisti propio il leader dei Litfiba. Ieri, in città, per una serie di appuntamenti legati all’Aquila Film Festival, il cantautore fiorentino ha parlato con gli aquilani, insieme al regista Cosimo Damiano Damato del corto. Nella mattinata, un incontro nell’aula magna del dipartimento di Scienze umane dell’università gremita di studenti. Nel pomeriggio, il “firmacopie” all’Auditorium con tanto di proiezione nell’ambito di un incontro coordinato da Federico Vittorini, deus ex machina del festival.
“Tu non c’eri” racconta la storia di un ragazzo (Brenno Placido) cresciuto senza padre – interpretato da Pelù – un uomo finito in prigione per aver abbracciato la lotta armata negli anni Ottanta – che tenta di riallacciare un immaginario dialogo con il proprio genitore andando, anni dopo la sua morte, nel rifugio di montagna che era solito frequentare uscito di galera. Un rapporto tra padre e figlio giocato sull’assenza, per scelta unilaterale del genitore.
Questo film è una partita a scacchi giocata in salita, con la montagna a fare da sfondo a questo duetto immaginario tra padre e figlio. che effetto fa dare voce (e mimica) a un personaggio?
«Per me è stata un’esperienza veramente importante misurarmi con un testo così profondo e poetico e con questo personaggio, un padre assente per ragioni politiche, che recupera “post mortem” il rapporto con il figlio attraverso queste parole affidate alle nostre voci fuoricampo. Raccontare una storia è come mettersi in un viaggio, dove sai quando e come parti ma non sai quanto quello che incontri lungo la strada ti può cambiare».
“La vita che in me si disperde si ritroverà in te e nel mio popolo per sempre”: come giudica la scelta di affidare a Nazim Himket le parole di chiusura?
«Bisognava dare un messaggio di speranza in coda a questa storia».
La speranza a margine di un rapporto padre e figlio, che lei ora vive quasi da nonno.
«E’ vero, sto per diventare nonno, e questa cosa la vivo con un po’ di ansia».
Con i Litfiba avete portato avanti un’evoluzione musicale negli anni. Dalla trilogia in avanti. Cosa ascolta adesso?
«Ascolto molte cose, da Pj Harvey a Iggy Pop passando per tante influenze di musica classica».
Che idea si è fatto dell’Aquila che sta vivendo un suo lento processo di rinascita?
«Ho bisogno di vedere questa città di notte, nel silenzio dei cantieri per farmi un’idea».