A Roma nel ’96, la prima volta coi Pearl jam dal vivo
Tour di No Code. Per i Pearl Jam il primo “da grandi” nei palazzetti in Europa. Per tanti fan italiani, la prima vera occasione di vederli dal vivo dopo le prime date in piccoli club milanesi del 1992 e quelle di supporto agli U2 nell’estate del 1993. Ne è passato di tempo da quel lontano novembre 1996: due giorni di Pearl Jam in Italia, prima Roma, poi Milano. Due concerti che hanno definito e cementato per sempre quel legame speciale che c’è tra la band di Seattle e il nostro paese. Il mio primo concerto dei Pearl Jam risale a quel periodo. Avevo compiuto da poco sedici anni e nei mesi precedenti c’era stata la disperata corsa al biglietto. Finii per ripiegare su Roma dopo che i biglietti per Milano erano andati sold out nel giro di pochissimo. Roma a quel tempo era un bel viaggetto per un adolescente emiliano. Io e il mio compagno di avventura eravamo solo ragazzini e i nostri genitori non si fidavano a farci stare soli, di notte, in una città così “lontana”. Per fortuna, mio padre (da sempre appassionato di rock) si offrì di accompagnarci.
Ricordo il pacchetto intero di sigarette fumato durante la giornata, il lungo viaggio “della speranza” in treno fino a Roma – negli anni novanta non c’era l’Alta Velocità – poi l’arrivo nella capitale, un ponticello attraversato a piedi e in fondo la sagoma del palazzetto – che all’epoca si chiamava ancora PalaEur – che si stagliava davanti a noi. Ricordo l’emozione nel vederlo e nel pensare che da lì a poco, proprio lì dentro, avrei visto per la prima volta la mia band preferita. Ricordo i tanti ragazzi in attesa con le loro t-shirt di gruppi Seattle, dai Nirvana agli stessi Pearl Jam, dai Soundgarden agli Alice in Chains. Ce n’era persino qualcuna con il logo dei Citizen Dick, mentre i più scafati si erano autoprodotti delle magliette tarocche dei Temple of the Dog. Ricordo i dibattiti con il mio amico sulla potenziale scaletta.
Era il 1996 e non c’erano setlist.fm e i social network, quindi non sapevi proprio cosa aspettarti. Ovviamente non c’erano neanche gli smartphone, grazie ai quali oggi tutto è subito online e consultabile nel momento stesso in cui accade. Più di tutto, ricordo un senso di autentica felicità e di trepidante attesa nel poter finalmente assistere ad un concerto dei Pearl Jam. Si respirava un’aria di comunità, di intensa fratellanza musicale, qualcosa di istintivo e di potente che ci legava tutti. In poche parole, sembrava di stare in famiglia.
Dopo il set dei Fastbacks, accolti con malcelato disprezzo dai fan – il giorno dopo, a Milano, Vedder avrebbe suonato in solitaria “The Kids are Alright” degli Who prima di presentare i Fastbacks, nella speranza di addomesticare il pubblico e sortire un’accoglienza più degna per la storica band di Seattle – ecco salire sul palco i Pearl Jam. Su Release c’era già il pogo (incredibile, vero?). Ricordo una RVM che mi face capire come una rivelazione che quei cinque ragazzi sarebbero diventati una delle colonne portanti del rock. Hunger Strike, che regalo… fu suonata lì per l’unica volta durante quel tour. Poi Jeremy, Daughter, Better Man, Alive… tutte, proprio tutte le canzoni che avrei voluto sentire. Verso la fine dello show partì Present Tense. Dopo circa dieci anni mi tatuai parte del testo sul braccio.
Si dice che niente è come la prima volta. Per quanto scontato possa sembrare, rimane sempre la prima volta. Ho assistito a tanti, tantissimi altri concerti dei Pearl Jam, anche migliori di quello di Roma, ma questo show me lo porterò per sempre nel cuore. Ribadisco – a costo di suonare nostalgico e noioso – che i cellulari all’epoca non si usavano, non c’erano setlist in “diretta”, non c’erano nemmeno macchine digitali e foto o video dello show della sera precedente. Nessuno aveva una connessione mobile a Internet, che all’epoca era praticamente fantascienza. Quella sera c’eravamo solo noi e quei cinque ragazzi sul palco, che non volevano certo cambiare il mondo ma che, solo con le loro canzoni, hanno cambiato per sempre la vita di un ragazzo.