9 Marzo 2015 Condividi

L'unica certezza? Spesi 2500 euro per il corso di specializzazione insegnanti

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«Professore, dovrei andare al bagno, posso?». Pensavo che cinque anni di scuole elementari, tre di medie, cinque di superiori, svariati anni tra università e master post-laurea – sommati a dieci mesi tra le tendopoli gestite dalla Protezione civile – fossero abbastanza per evitarmi ulteriori domande del genere. Eppure, mi è capitato anche questo alla lezione inaugurale del Tfa, il corso di specializzazione che ho intrapreso nella speranza di rientrare nel piano-stabilizzazioni annunciato dalla “Buona scuola”.

Il Tfa ha mandato in pensione le Ssis, le scuole di specializzazione all’insegnamento secondario, di durata biennale. Le Ssis costavano intorno ai 1.500 euro l’anno, il Tfa qualcosa come 2.500 euro nell’arco di quattro mesi, da pagare con due rate anticipate e molto ravvicinate. A questo ci sono da aggiungere le spese quotidiane per raggiungere l’università di Chieti, dove si fa lezione con frequenza obbligatoria, e i costi per procurarsi dispense e libri consigliati. Perché c’è anche da sostenere esami.

Per atenei e ministero si tratta di un business non da poco: lo scorso ciclo si è parlato di 50 milioni di introiti complessivi. Entri in classe senza sapere granché, non solo degli insegnamenti da affrontare, un mix tra pedagogia, didattica e storia della scuola, prima di entrare nello specifico delle lezioni legate alla materia che si ambisce di insegnare.

Quest’anno, i posti disponibili in Abruzzo erano 584, con classi divise fra L’Aquila e Pescara-Chieti. Non è una regola, ma le classi di concorso relative a materie umanistiche vengono portate avanti alla d’Annunzio, il resto nel capoluogo.

Si entra in aula sulla base di un calendario di massima, ma senza alcuna informazione su programmi e periodi di pratica. Così, sono costretto a espormi davanti al resto dell’aula chiedendo come far convivere questo Tfa e la mia attività lavorativa, alla quale non posso rinunciare, visto che non prendo soldi dal Miur (anzi…). «Questo è un percorso che va affrontato seriamente ed è chiaro che ci sono dei sacrifici da fare», mi risponde il professore, a cui qualche minuto prima ho chiesto di poter andare in bagno. Vorrei rispondergli di avere tutte le intenzioni di prendere le cose sul serio, così come prendo sul serio il fatto di avere due figli che hanno il “vizio” di mangiare ogni giorno.

Ma non c’è bisogno di fare lotta di classe, visto che le sue lezioni – interessanti – sono colme di esempi sul diritto allo studio. Anche se a volte ci tratta come alunni delle medie, dimostra con le parole e coi fatti come si gestisce una classe.

Chiedo informazioni alla segreteria, ma nessuno risponde alle email. E, quella volta che la trovo, la segretaria mi risponde in burocratese dicendo che nulla dipende da lei, ma che bisogna prendersela col Miur. Devo, tuttavia, convenire con lei che il ministero continua a cambiare le carte in tavola. «Stiamo cercando di inserire tutti gli idonei nei nostri corsi», spiega il rettore Carmine Di Ilio, decisamente più facile da trovare al telefono rispetto alla segretaria, «mentre prima il Tfa era riservato solo ai vincitori del concorso. Questa cosa ci provocherà qualche disagio, ma cerchiamo di tenerci al passo coi tempi». Ma nulla si può di fronte all’incertezza della riforma.

di Fabio Iuliano – fonte il Centro

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