L'Aquila, Giorgi: la povertà è la vera emergenza
«Il campanello di una canonica non ha mai tregua. Ancor più in una città terremotata. Lo senti suonare a tutte le ore, tranne quando è il momento del pranzo. Allora le porte laterali della mensa di Celestino V si spalancano per accogliere e ascoltare, ma con discrezione. Lontano da occhi invadenti, le vite disperate di tanti giovani in Abruzzo, oggi s’intrecciano con i pochi homeless storici e gli stranieri che, anche in passato, bussavano alle porte del movimento celestiniano per chiedere un tozzo di pagnotta». La giornalista di Avvenire, Alessia Guerrieri, si è soffermata a lungo nel suo libro “Il pane non basta” nel descrivere la vita della Fraterna Tau, la mensa dei poveri, tornata ad operare appena un anno dopo il sisma grazie alle donazioni dei lettori del Centro, oltre che all’impegno dei volontari che ogni giorno assicurano oltre 100 pasti agli indigenti. Le risorse c’erano e il progetti anche per rilocalizzare una realtà, che prima del sei aprile aveva sede in via dei Giardini; ma tutto rischiava di perdersi in un infinito labirinto burocratico. Solo la tenacia, anzi la cocciutaggine di gente come Paolo Giorgi, per tutti Pierino, ha permesso di cambiare le cose. «Noi avevamo questo progetto per piazza d’Armi, col sostegno della Protezione civile», ricorda. «Ma in città c’è tanta gente che preferiva pensare a teatri e poli culturali, ignorando la possibilità di sostenere strutture in grado di far fronte a un’emergenza sociale senza precedenti. Così una bella mattina, rispolverando il mio passato di sindacalista, mi sono presentato alla Reiss Romoli e ho interrotto un consiglio comunale per presentare un ordine del giorno scritto da me, finalizzato alla realizzazione della mensa».
E poi come è andata?
«Ci ha pensato Guido Bertolaso a mettere la parola fine alle controversie, pochi giorni prima del passaggio di consegne della Protezione civile. Disse qualcosa del tipo “se è vero che per le prossime 72 ore il commissario per l’emergenza sono ancora io, posso assicurare che la mensa si farà secondo il progetto previsto”».
Sono stati giorni impegnativi quelli successivi alla scossa?
«La nostra casa in via Montevelino, a Valle Pretara, non ha subìto molti danni. Ma vivendo al quinto piano siamo stati praticamente gli ultimi a uscire dal palazzo. Io ero nel lettone con Claudia, la figlia più piccola, e mia madre Iolanda era addirittura in mansarda. Abbiamo dovuto scendere le scale lentamente tra la paura delle scosse. Sono stati attimi tremendi. Quella notte, per mia moglie Annalucia è stata ancora più difficile. Entrambi lavoravamo come educatori in una casa famiglia della Asl, ma quella notte di turno c’era lei. Non è stato affatto facile mettere al sicuro le persone assistite e predisporre nel giro di pochi giorni un trasferimento ad Atessa, visto che nelle tendopoli non c’erano le condizioni per assisterli».
Prima del terremoto la mensa dei poveri garantiva un pasto caldo a una cinquantina di persone – ora sappiamo che i numeri sono triplicati – ma quella gente da un giorno all’altro si è trovata senza punti di riferimento. La sua associazione ha fatto qualcosa?
«Ho scelto di sistemarmi nella tendopoli di San Felice d’Ocre, se non altro per restare vicini al convento di Sant’Angelo che negli ultimi anni è stato sede di tante attività del Movimento celestiniano, grazie anche a padre Quirino Salomone. Da lì, con le mie figlie Alessandra e Francesca, e con altri volontari abbiamo avviato un’attività capillare di ricognizione delle persone che frequentavano la mensa. Giravamo tendopoli per tendopoli. Facevamo spola con la costa, per raccogliere abiti, medicine, pannolini e pannoloni, per bambini e anziani. È vero, infatti, che nelle tensostrutture tutti potevano mangiare, ma le persone indigenti avevano anche bisogno di altri tipi di assistenza».
Quando avete iniziato a pensare alla possibilità di ricostruire una mensa?
«Praticamente subito. Abbiamo incontrato più volte membri della Protezione civile, studiando insieme la strada da seguire. Ma il Comune tergiversava, anche perché alla corte del sindaco c’erano tanti che vedevano piazza d’armi come un luogo dove spendere soldi realizzando opere faraoniche. Qualcuno ha anche cercato di orientare il progetto nella ricostruzione della sede di via dei Giardini. Ma tutti sapevamo che non era una strada praticabile, in quanto ci sarebbero voluti anni e i poveri non potevano certo aspettare. Oltretutto, il Consorzio celestiniano era in affitto in un edificio dell’Ipab e questo avrebbe reso l’iter molto più lungo. Poi nel progetto è stata inclusa la realizzazione della nuova chiesa di san Bernardino».
Trova cambiata la fisionomia della povertà cittadina in questi ultimi cinque anni?
«Prima del terremoto le persone a cui davamo da mangiare, o a cui consegnavamo pacchi viveri, erano i poveri abituali del capoluogo, barboni di strada, ragazzi con problemi di droga e gente che non aveva soldi. Oggi, invece, sempre più giovani aquilani e stranieri bussano alla nostra porta. A fare la fila per un piatto anche tanti operai edili stranieri, arrivati all’Aquila con la speranza di lavorare nei cantieri della ricostruzione. Ci tengo a dire una cosa, la Fraterna è per molti anche un momento di riposo, di tranquillità. Un luogo dove stemperare le proprie ansie dove andare a bussare anche solo per una carezza o una pacca sulle spalle»