28 Agosto 2009 Condividi

Homelessness

Le metropoli Usa sconvolte dalla crisi dei mutui subprime. Un’intervista a Peter Marcuse e Neil Brenner.  (fonte: Il manifesto, 12 agosto 200)

homeless

«I senzatetto non sono una falla del sistema, ma la condizione del suo funzionamento». Questa citazione, tratta da uno dei suoi libri, decora le pareti dell’ufficio newyorchese di Peter Marcuse, figlio del «filosofo del ’68» Herbert e professore di pianificazione urbana alla Columbia University. Oggi potremmo sostituire i senzatetto con le migliaia di americani che si trovano in mezzo a una strada in seguito alla crisi dei mutui. Cambiano le forme, ma non il meccanismo che regola il sistema. Per questo con Marcuse, e con Neil Brenner, professore di sociologia e di metropolitan studies alla New York University, proviamo a discutere della crisi attuale e dei suoi effetti sulla geografia delle città, delle nazioni e del mondo. E degli spazi che questa potrebbe aprire per le sinistre e i movimenti sociali.

In che modo la crisi può costituire un’opportunità per la sinistra e i movimenti sociali?

Peter Marcuse: Il punto da cui partire per capire quali sono i limiti e le possibilità per la sinistra in questa crisi economica è la situazione attuale del mercato immobiliare, in particolare quello cittadino. Negli Stati Uniti c’è grande solidarietà verso coloro che perdono la propria casa e si moltiplicano i tentativi di evitare i pignoramenti. Tra i più radicali, vi è un movimento di occupazione delle case sequestrate, attivo in varie zone: a New York prende il nome di Picture the Homeless, a Miami si chiama Take Back the Land. Gli attivisti aiutano le persone a occupare le case rimaste vuote, conquistando così molta simpatia da parte della popolazione. Alla domanda su quale fossero i loro obiettivi, hanno tuttavia spesso risposto che sono coscienti che le loro azioni sono illegali e che le famiglie occupanti dovranno prima o poi andarsene. Quello che cercano di fare è solo rendere pubbliche le tragedie di chi è sbattuto fuori dalla propria abitazione. Il passo seguente, a rigor di logica, dovrebbe essere il riconoscimento che il libero mercato è lo strumento sbagliato per distribuire le case e che gli edifici occupati dovrebbero essere messi in modo permanente al servizio di chi ne ha bisogno. Questo ragionamento però non viene fatto. La recente formazione e crescita di movimenti sociali radicali è indubitabile. Al tempo stesso, non riescono a esplicitare il carattere politico delle loro rivendicazioni.

Neil Brenner: Se le persone capissero che questa è la logica inevitabile del capitalismo si arriverebbe ad una critica sistemica e ad una soluzione. Non si tratta infatti di correggere alcuni «casi isolati» di espulsione di persone che si sono trovate in «circostanze sfortunate». La situazione attuale è infatti il risultato di oltre un decennio di una speculazione di un mercato immobiliare orientato a trarre profitto dalle fasce più deboli della popolazione.

Quali sono dunque gli effetti della crisi economica sulle metropoli statunitensi?

Peter Marcuse: Per il momento, non vi sono cambiamenti significativi nel modo in cui il capitalismo interviene sulle città. Ma le gerarchie di potere potrebbero risultarne modificate, anche se non è ancora chiaro in quale direzione. È forte la possibilità che accada qualcosa sul fronte politico, il che influenzerebbe il governo cittadino. Con l’elezione di Obama c’è stato uno spostamento generale verso sinistra, anche se certamente non in modo radicale. Si è così diffuso il bisogno di un ruolo più forte delle istituzioni pubbliche e di una maggiore regolazione dell’economia di mercato. Inoltre, non c’è più un’accettazione acritica del ruolo centrale della finanza nel settore dello sviluppo urbanistico. Allo stesso tempo, l’uso che si sta facendo degli aiuti di stato suggerisce però l’importanza continua se non crescente del settore finanziario.
Neil Brenner: La domanda che la sinistra si deve porre non è «crisi o stabilità» ma cosa distingue questa crisi dalle altre. Questa, infatti, è un’occasione per politicizzare la finanziarizzazione dell’economia in generale e dell’economia urbana in particolare. Il ruolo della finanza come meccanismo centrale del capitalismo è stato dato per scontato, mentre sottende decisioni e rapporti di forza che decidono della distribuzione delle risorse pubbliche. Con questo oggi ci dobbiamo confrontare in modo molto esplicito e a tutti i livelli: locale, nazionale e globale.

Peter Marcuse: La parola chiave è «politicizzare». Non è ancora accaduto. La sfiducia nel settore finanziario non è molto distante dal diventare una critica del capitalismo, ma questa possibilità resta ai margini della discussione pubblica. Il che mette in evidenza i limiti nel funzionamento della democrazia rappresentativa. Suggerisce che l’unidimensionalità prodotta dal sistema è molto profonda. Quando Obama parla nei campus universitari, le questioni sollevate riguardano però la necessità di prevenire gli aborti piuttosto che limitare il potere di Wall Street.

Si può dunque parlare di una distanza se non di una frattura tra il livello della rappresentanza democratica e quello dei fenomeni sociali che si manifestano nelle metropoli?

Neil Brenner: Una delle risposte potrebbe essere questa: le istituzioni rappresentative garantiscono un certo livello di diritti civili propedeutici al perseguimento di altre forme di democrazia radicale. Il punto è però un altro, cioè se i movimenti globali operano per affermare un progetto di democrazia popolare, o di autogestione, più radicale delle procedure elettorali sulle quali si basa la democrazia parlamentare. Ci si deve dunque chiedere se i processi di ristrutturazione economica globale negli ultimi due decenni, oltre a limitare i movimenti sociali, abbiano anche contribuito a far sorgere nuove strategie in questa direzione nelle città di tutto il mondo.

Peter Marcuse: Io vedo una situazione di grande ambiguità. Il luogo in cui la democrazia diretta è possibile sono le città, il livello locale, perché è lì che vivono gli uomini e le donne. Il malcontento nei confronti di questa crisi si esprime nelle città e, in una certa misura, nelle politiche cittadine. Però il fenomeno non è locale, ma nazionale e globale. Quindi abbiamo delle risposte ambigue: l’indignazione si esprime a livello locale ma il suo obiettivo è sovralocale. Una conseguenza negativa della crisi sulle politiche locali è la subordinazione dei problemi relativi alla qualità della vita o ai salari e alla distribuzione delle risorse alle misure per la crescita economica. È quello che sta succedendo a New York, dove l’amministrazione sta investendo in infrastrutture nel lower Manhattan per ottenere maggiore sviluppo economico invece di investire nelle scuole pubbliche, nella sanità. In questa situazione di crisi, il perdurare del dominio della sfera economica avrà effetti negativi sui movimenti sociali progressisti a livello locale.

La globalizzazione, in tutte le sue forme, mette in gioco il rapporto tra il capitale e la trasformazione spaziale del mondo. Che relazione c’è oggi tra lo sviluppo capitalistico e la creazione di nuovi spazi?

Neil Brenner: La trasformazione spaziale è al centro dell’accumulazione di capitale, perché l’estrazione del plusvalore implica la creazione di una rete globale di infrastrutture per facilitare l’accumulazione. Questi temi sono il cuore del nostro progetto «città per le persone, non per il profitto». Da una parte vi sono i processi di accumulazione e di mercificazione che producono vari modi di appropriazione dello spazio orientati al profitto. Dall’altra vi sono lotte per appropriarsi dello spazio per uso popolare, per la riproduzione sociale. Ma il confine tra mercificazione e riproduzione sociale è fluttuante. La crisi ha evidenziato l’estensione crescente della mercificazione del mercato immobiliare e l’opposizione che ha incontrato. È, questa, un conflitto sulla produzione dello spazio. Prende forme diverse rispetto a trenta, cinquanta o centocinquanta anni fa, ma è endemico al capitalismo come il conflitto per estrarre plusvalore dal lavoro.

Peter Marcuse: La crisi attuale è stata prodotta dalla ricerca di luoghi ulteriori per l’investimento di capitale: i salari non erano sufficienti per far fruttare il settore immobiliare in termini di investimenti, dunque si è deciso di estendere il credito per produrre profitto. Quando i salari non sono abbastanza alti per ripagare il credito si ha una crisi come questa.

Negli Stati Uniti la teoria critica non si manifesta più negli ambiti del pensiero politico o della scienza politica, ma negli studi di geografia e di urbanistica critica. Perché? Ha a che fare con i processi di globalizzazione e denazionalizzazione?

Neil Brenner: A partire dagli anni Ottanta abbiamo assistito a una significativa riarticolazione dello spazio politico-economico. Alcuni studiosi ne hanno parlato in termini di globalizzazione, deterritorializzazione o denazionalizzazione. Io preferisco parlare di rescaling,, di ridefinizione delle scale spaziali. Una delle sfide oggi è dare un senso a queste nuove geografie. Penso che il termine «denazionalizzazione» sia problematico. La dimensione nazionale è significativa in termini strutturali e politici come lo era in passato, ma è inserita in un contesto geografico mutato. Quindi, è necessario comprendere la riarticolazione del livello nazionale con il livello locale e quello globale dell’autorità politica. L’Unione europea è un case study molto importante per comprendere questa nuova configurazione dello spazio politico e dell’autorità politica a partire dal nuovo sistema di relazioni tra nazionale, subnazionale e sovranazionale. Si tratta di un ridimensionamento dello spazio politico nazionale più che la sua dissoluzione

Peter Marcuse: La geografia ha un rapporto mediato con il politico. Se si deve analizzare cosa sta accadendo negli Stati Uniti con la crisi utilizzando gli strumenti di una buona scienza politica, la conclusione sarebbe immediatamente che serve una rivoluzione. Se si prende in considerazione il sistema spaziale, bisogna fare alcune inferenze ulteriori prima di giungere alla stessa conclusione, perché, introducendo il livello spaziale, si produce una formulazione mediata della crisi. Sono stupito dal fatto che la geografia sia oggi più radicale della scienza politica o dell’economia, perché è in un certo senso illogico. La crisi sottostante riguarda le relazioni economiche e politiche nella società e lo spazio è uno strumento per influenzarle e strutturarle, ma ne è un riflesso.

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