Storie di pesca: Marcello, Rocco e gli altri delle tre
Da una parte, un delfino bianco con scritto Lina. Dal lato opposto, un altro delfino – contrapposto in modo identico e speculare – con scritto Marcello. Lo stemma biancazzurro al centro del box e una sciarpa su una delle pareti a ribadire una fede incondizionata riposta nei piedi di Sansovini. E in quello che offre il mare. Perché da oltre 20 anni, sei giorni su sette, Marcello Di Vito e suo figlio Rocco si mettono in acqua per sistemare reti e nasse e raccogliere i frutti da dividere scrupolosamente e rivendere al mercato ittico di Montesilvano.
L’attività della piccola pesca si concentra soprattutto nella fascia costiera fino a tre miglia dal litorale. Con imbarcazioni non molto grandi, vengono calate in mare reti da posta e piccole trappole, per catturare sogliole, mazzole, triglie, canocchie, seppie e lumachine di mare. Estate o inverno cambia poco, la fatica è sempre tanta: nei mesi più caldi c’è anche da svegliarsi almeno un’oretta prima, per essere operativi anche alle tre di notte. A quell’ora, parafrasando Neruda, le reti sanno essere tristi. «Facciamo turni a dir poco massacranti», valuta Marcello, «un lavoro del genere lo fai solo se ti spinge una volontà fuori dal comune, fermo restando il bisogno di arrivare a fine mese».
Sessant’anni, un passato da dipendente di una ditta di telefonia privata, Di Vito potrebbe contare solo su una pensione minima da 470 euro al mese per tirare avanti. Di qui, nel bel mezzo degli anni Novanta, la scelta di fare di necessità virtù e di trasformare in un lavoro quella che fino a quel momento era solo una passione di famiglia. Suo padre Rocco era arrivato da queste parti dalla Ciociaria attirato, forse, dal sapore del mare del litorale adriatico. A lui è intitolata la barca, la “Rocco Padre 3PC003”. Una vocazione tramandata nel sangue, da nonno a nipote, alla pari del nome di battesimo.
Certo, anche tra i pescatori esistono le famiglie che non fanno altro da intere generazioni, ma fa un certo effetto vedere casa Di Vito – padre, madre e figlio – allineati sulla stessa causa dentro al box. «Il lavoro inizia il giorno prima, nel tardo pomeriggio», spiega Marcello, «quando ci sono da sistemare reti, nasse e cestini».
Le reti da posta sono utilizzate per sbarrare la strada ai pesci. Vengono calate con l’aiuto di ancore e pesi, per evitare che la rete stia tesa e non cada sul fondo. Nella parte superiore vengono posizionati dei galleggianti di sughero ed in quella inferiore dei pesi di piombo. «Usciamo a due miglia», ricorda Rocco, «per sistemare queste reti, in punti dove l’acqua è mediamente profonda». La rete, rispetto al fondo, ha un’altezza di circa due metri mentre può raggiungere una lunghezza di centinaia di metri. Si deve sistemare tutto prima della notte, boe comprese, prima della notte, perché è quello il momento in cui i pesci si muovono alla ricerca del cibo. Ogni pescatore riconosce i propri attrezzi dal colore delle bandierine poste sulle boe. Con i retini si catturano principalmente sogliole, triglie, mazzole, mormore e cannocchie. Le nasse si piazzano anche a 2-300 metri dalla riva, sono piccole trappole mobili utilizzate per raccogliere i molluschi sul fondo, mentre i cestini sono studiati appositamente per la cattura delle lumachine di mare.
«Ogni periodo dell’anno ha i suoi momenti migliori per ciascun tipo di pesca», ci tiene a dire Marcello, «per le seppie, tanto per fare un esempio, un periodo buono è quello della primavera». Normalmente, dai primi di aprile fino a circa la metà di giugno, le seppie migrano dal largo verso la costa per riprodursi e le femmine cercano delle superfici per deporre. L’alloro attira le seppie all’intero della gabbia, queste entrano per deporre le uova sui ramoscelli ed una volta entrate non riescono più ad uscire. In alternativa alle nasse si possono usare i cogolli. Si esce in mare a ritirare reti e nasse quando è ancora notte, per tornare a riva all’alba. È qui che inizia il lavoro più duro, quello di ripulire le attrezzature, facendo una cernita dei pesci raccolti. «Per questo compito», spiega Marcello proprio mentre trasporta i primi secchi, «assumiamo delle persone a giornata. Stranieri, principalmente, che fanno lavori che molti italiani ormai non fanno più. Tutto regolare, certo, dai contratti ai permessi di soggiorno. Qui i controlli sono tanti e sono severi. A Pescara si dice che “lu can mòcceche lu stracciat”».
Le barche sono ancorate a pochi metri dal mercato ittico, i cui locali sono adiacenti alla costruzione in legno, dove in estate ha sede la Protezione civile. I box aprono attorno alle 7. Marcello e Rocco raggiungono secchi alla mano la postazione allestita dalla signora Lina (Natalina Cantoro, il nome completo, 60 anni come il marito).
«È lei che comanda», dicono in coro. C’è da allestire i prezzi: 20 euro al chilo per le canocchie, 10 per le sogliole 5 per i cefali, 10 euro il misto e poi ci sono anche le mazzancolle e via dicendo. Ma la signora è in affanno perché non c’è neanche il tempo di aprire i battenti che le si piazzano davanti i clienti della prima ora, quelli più esigenti di solito. Il cellulare
continua a squillare a vuoto con la suoneria di “Bailando” di Enrique Iglesias. La crisi c’è e si fa sentire, specie negli ultimi anni, in cui c’è da fare salti mortali per far quadrare il bilancio familiare, ma nei week-end estivi i clienti non mancano.