Nino D’Angelo e la sua Napoli diffusa
10 Agosto 2025 Condividi

Nino D’Angelo e la sua Napoli diffusa

«Volevano farmi cantare le sceneggiate, ma io volevo arrivare al cuore dei giovani». C’è un momento preciso, nella carriera di Nino D’Angelo, in cui tutto cambia: le melodie malinconiche cedono il passo a brani che parlano d’amore, di quotidianità, di sogni. È lì che nasce la rivoluzione degli anni ’80, un cambio di passo che trasforma il “caschetto biondo” in un’icona pop. Oggi, a più di quarant’anni da quella svolta, il cantautore e attore torna sul palco con lo spettacolo “I miei meravigliosi anni ’80 – Estate 2025”, atteso venerdì 22 agosto, alle 21, al Porto Turistico di Pescara, con l’organizzazione a cura di Best Eventi. Dopo il bagno di folla allo stadio Maradona di Napoli — 40 mila spettatori — e un tour internazionale tra Europa e America, D’Angelo celebra quel decennio con una grande festa musicale: A’ discoteca, Jamaica, Popcorn e patatine, Maledetto treno, fino a Napoli, oggi inno ufficiale della squadra azzurra. Una carriera segnata da sei partecipazioni a Sanremo, un David di Donatello, un Nastro d’Argento, un Globo d’Oro, la co-conduzione del DopoFestival ’98, la direzione artistica del Trianon Viviani e un concerto speciale al San Carlo per omaggiare Sergio Bruni. E poi il murale di Jorit a San Pietro a Patierno, voluto dagli abitanti del suo quartiere natale: il tributo più autentico al suo legame con la gente.

Venerdì sarà al Porto Turistico di Pescara con lo spettacolo “I miei meravigliosi anni ’80”. Cos’hanno rappresentato per lei quegli anni?
«Sono stati anni effettivamente meravigliosi. Io devo tutto agli anni Ottanta, come artista e pure come uomo. Mi sono sposato alla fine del ’79, quindi eravamo praticamente già lì… in quel periodo è nato mio primo figlio Toni, e le mie canzoni più forti le ho scritte proprio in quegli anni. Gli anni Ottanta hanno cambiato la mia vita».

Nel tour mette in scaletta i brani più celebri, ma ogni spettacolo ha anche una sua anima narrativa. L’altra volta era “Il poeta che non sa parlare”, stavolta invece torna “Il ragazzo della Curva B”.
«Sì, stavolta metto avanti “Il ragazzo della Curva B”: è una parentesi a parte, è l’inno del Napoli, è un’altra cosa, diversa dal “poeta”. È una canzone che, più che alla squadra o a una maglietta, è legata a un modo di essere. È un po’ l’immagine di quella Napoli pop che io negli anni Ottanta non ho inventato, ma ho contribuito a cambiare».

Cambiare in che senso?
«Volevano farmi cantare le sceneggiate, ma io volevo arrivare ai giovani. E con le sceneggiate, ai giovani non ci arrivavi. All’inizio cantavo la mia storia, fatta di sofferenza. Percepivo invece che i ragazzi volevano innamorarsi, volevano emozionarsi. Così ho iniziato a scrivere qualcosa che mi avvicinasse a loro e piano piano, anche la canzone napoletana ha cominciato a cambiare con me».

Parlando di Napoli, il calcio è andato di nuovo in ritiro in Abruzzo, a Castel di Sangro. So che ha un legame con la zona.
«Eccome! Io sono cittadino onorario di Pizzoferrato, conservo le chiavi del paese e ho pure una casa lì. La comprai per mio padre, che amava la montagna. Oggi quella casa c’è ancora, ci vanno i miei parenti. Io però ci vado di meno, perché ho qualche problema di pressione e ho paura a trattenermi troppo in quota».

Sono tanti i napoletani che frequentano l’Abruzzo, tra Roccaraso, Castel di Sangro, la Maiella…
«È vero. Quando ero piccolo, Roccaraso era la nostra Svizzera. Facevamo le gite con la parrocchia, coi pullman. Era la montagna a cui potevamo arrivare tutti. La conoscevo già da allora».

Torniamo al calcio. Lo scudetto del 2023 è stato un momento importante ma forse l’ultimo è arrivato in maniera meno attesa. Lei come lo ha vissuto?
«Mamma mia. Non ci credevo fino alla fine. È stato uno degli scudetti più belli, insieme al primo. Forse anche di più, perché è arrivato quando effettivamente nessuno se lo aspettava. Adesso vediamo la Champions… serve praticamente una doppia squadra, con tutti giocatori forti. Ma De Laurentiis sta facendo un gran lavoro».

A proposito di Napoli, quanto si riconosce nei racconti cinematografici di Paolo Sorrentino?
«Sorrentino è un grande regista, ma ha un occhio più borghese. Io vengo da una Napoli popolare, quindi è normale che siamo diversi. Il suo film mi è piaciuto, ma Napoli ha tante facce. Se ne potrebbero fare cinque di film su Napoli».

E lei, invece, che faccia ha voluto raccontare?
«Io non volevo raccontare la Napoli della malavita. Non perché non esistesse, ma perché da ragazzo volevo parlare ai giovani, raccontare un’altra Napoli. Quando facevo le sceneggiate ero il più giovane in sala. Oggi, ai miei concerti, ci sono quattro o cinque generazioni. È una cosa bellissima».

Nel pubblico di oggi ci sono anche i figli di chi l’ascoltava negli anni ’80…
«Esatto. Molti di loro mi conoscono grazie ai film visti con le mamme, con i nonni. Quando canto le canzoni degli anni Ottanta mi sento più giovane anch’io, è come un viaggio nel tempo».

So che sta lavorando a un documentario, ma c’è ancora riserbo.
«Sì, lo sta facendo mio figlio. Per me è un’emozione grande. Mi ha fatto un grande regalo. Lavorando insieme, ho conosciuto ancora di più Toni. Ed è una cosa bella, da padre e da artista».

Un ricordo legato a Pescara, oltre agli spettacoli recenti?
«Pescara per me è come una città “napoletana”. Ho tanti amici, e poi il mio impresario è di Pescara, Stefano Francioni. Ho suonato spesso anche nei dintorni, una volta a Montesilvano mi fecero cantare nell’ambito di un tour estivo, fu bellissimo. Negli ultimi anni ci vengo più spesso».