Damien Rice, due ore su un palco nell’intimità di una cameretta
La sagoma di Damien Rice si fa strada tra le luci fioche dello scarno allestimento sul palco del Teatro D’Annunzio, nella serata di apertura di Pescara Jazz (www.besteventi.it). Ma basta un filo di voce per entrare in quell’atmosfera intima che pochi concerti riescono a dare. La raccomandazione iniziale dagli altoparlanti è quella di mettere i cellulari in modalità “off”.
E bastano due o tre canzoni per far capire al pubblico che qualsiasi luce artificiale dagli schermi portatili è fuori luogo. Si cerca di mettere meno interferenze possibili in quel flusso di parole e arrangiamenti che il cantautore irlandese condivide con la platea. Pressoché inutilizzate le americane sul palco, i fari dell’allestimento fanno pensare più che altro a un set intimo nella penombra. Così “Amie” con qualche passaggio di “Eskimo” alla fine, così “Accidental Babies” e “Cannonball”.
“C’è una separazione naturale nella disposizione abituale di un palco e un pubblico”, ha detto Dice a un’intervista recente sul quotidiano il Centro (qui si può leggere in integrale). “La rottura del confine tra l’artista e il pubblico è una sfida che mi affascina da anni. Per me quello che conta è sentirmi vicino il più possibile al pubblico, vivendo il momento del concerto insieme, dimenticandoci di dove siamo lasciando fare alla musica. Questo è uno dei grandi doni della musica: il suo potere di trasformare la nostra condizione mentale e fisica. Per me è importante salire sul palco rilassato come se fossi nella mia camera da letto”.
Damien Rice il suo lavoro lo sa fare, sa interagire con la platea: ancora una volta in “Volcano”, così come in passato, interrompe gli applausi a ritmo perché è difficile tenere il tempo. Meglio dirigere il coro dividendo la platea in tre parti vocali sovrapposte. Per uno come lui, dicevamo, basta un filo di voce. Altre riesce a far uscire voce e chitarra con energia. Come in “I remember” giocata tra compressori a pedale e Wah, con luci che simulano un temporale.
Talvolta è il pubblico a orientare la scaletta, come con “Cold Water” eseguita su richiesta di una donna irlandese chiamata persino a cantare sul palco. “I’m a bad singer”, dice quest’ultima declinando l’invito. “Almeno sei onesta”, replica lui prima di sfruttare auricolare e radio jack per raggiungerla tra le prime file del pubblico. “Durante un concerto”, si è trovato a spiegare. “Amo non sapere dove sto andando e mi piace sentire il momento e lasciare arrivare alla mente le canzoni secondo un flusso che provo a seguire. Neanche la struttura dei singoli pezzi resta invariata. Amo prolungarli o improvvisare alcuni passaggi, specie se suono con la loop station. In questo tour, tuttavia, la collaborazione con la cantante e violoncellista brasiliana, Francesca Barreto, mi porta a tenermi più sulle versioni originali”.
L’incastro vocale tra i due è interessante, le armonizzazioni naturali, così come gli arrangiamenti per violoncello, dall’arco al pizzicato. “Delicate” ed “Elephant” sono altre richieste, prima dell’Encore. Poi il finale con “Cheers Darlin’” che apre a una suggestione di “Black is the Colour”, dunque “The Blower’s Daughter”, una delle canzoni che l’hanno fatto conoscere al grande pubblico, anche grazie a quel capolavoro di film che è “Closer”.
Quarant’otto ore prima al Teatro Romano di Ostia – raggiunta via barca a vela (il tour si chiama “Sailboat” non a caso) – aveva chiuso con “Senza fine”, cover di Gino Paoli, per poi suonare una inaspettata “Behind Those Eyes” dedicata alle persone rimaste davanti all’ingresso. Tra i prossimi appuntamenti Venezia (Teatro La Fenice – martedì 11), Pistoia Blues (mercoledì 12), Bologna (Sequoie Music Parc – venerdì 14), Gardone Riviera (Festival del Vittoriale – sabato 15). Poi la barca a vela ripartirà verso altri lidi della penisola iberica.
Fonte: www.thewalkoffame.it /Ansa