“È la guerra che cambierà il mondo come l’11 settembre”
Il suo libro “Fronte dell’Est. Passato e presente di un destino geografico” (Castelvecchi 2022) ha definito con tempestività e lucidità confini e dinamiche di un conflitto acuito da un’invasione su larga scala decisa dalla Russia di Vladimir Putin. Da allora, da quella notte tra il 23 e il 24 febbraio dello scorso anno, Salvatore Santangelo è stato chiamato in causa da testate di tutta la Penisola per descrivere lo scenario che ha portato alla guerra russo-ucraina, sempre alla luce di dinamiche globali che il giornalista e docente universitario aquilano aveva analizzato in altri volumi, come “Babel” (2018) o “Gerussia” (2016). Le sue analisi si propongono come una bussola per orientarsi in quella che Papa Francesco ha indicato come «terza guerra mondiale a pezzi».
Professor Santangelo, un anno esatto è passato dall’inizio di questa guerra, evoluzione della crisi nel Donbass che va avanti dal 2014. Tante cose sono cambiate da quel 24 febbraio, ciononostante le posizioni delle due parti in causa sembrano cristallizzarsi giorno dopo giorno.
E così non potrebbe non essere. Sulle pianure ucraine, e attorno a esse, si sta combattendo una battaglia esistenziale e per certi versi definitiva: per la soggettività storica e identitaria sia di Mosca che di Kiev, per il futuro di quel fenomeno multilivello che in modo semplificato chiamiamo globalizzazione, per la Nato che cerca una sua ragion d’essere dopo il fallimento afghano. Come vede, la posta in gioco per i diversi contendenti è altissima. Putin, Biden, Zelensky e persino la Meloni hanno ancorato il proprio futuro politico sull’esito di questo scontro, su questa sanguinosa e drammatica scommessa.
La parola “vittoria” è tra le più usate dal presidente Volodymyr Zelensky nei discorsi pubblici. Quanto ritiene opportuno e logico parlare di vittoria in un momento in cui nessuno sa veramente cosa vuol dire affrontare militarmente la Russia oltre i confini dell’Ucrainia?
In qualche modo le ho già risposto: per la leadership di Zelensky non c’è alternativa alla vittoria, e questa non è compatibile con quello che Putin ritiene il risultato minimo per giustificare la sua follia agli occhi dei russi (e della posterità): tutto il Donbass e la messa in sicurezza della Crimea. Parliamo del 20 per cento dell’Ucraina, tra l’altro la parte più ricca, e di un quinto della popolazione del Paese. L’esercito russo – come quello ucraino – ha pagato un prezzo altissimo e i suoi comandanti hanno commesso errori madornali, ma siamo di fronte a un “animale” che, storicamente, impara dai suoi sbagli, sostenuto da quella che appare una volontà ferrea e da risorse materiali nettamente superiori a quelle dell’avversario.
Quale evoluzione ha avuto la posizione dell’Europa nella vicenda; quale quella degli Stati Uniti, questi ultimi peraltro anche al centro di una serie di accuse di responsabilità relative al sabotaggio al gasdotto Nord Stream 1 e 2 del settembre scorso?
Entriamo in un campo minato. L’Europa non esiste se non come sommatoria di interessi. La crisi dell’asse franco-tedesco (vero architrave dell’Unione) dipende anche da questo. Per quanto riguarda Nord Stream, dobbiamo aspettare ancora che si diradi la “nebbia di guerra”; quello che mi permetto di aggiungere al ragionamento è che a Washington (giustamente dal loro punto di vista) non sono più disposti ad accettare alcuna ambiguità dai proprio alleati, in particolare Germania, Giappone e Italia.
In tanti ritengono che questo conflitto non avrà fine senza una posizione netta da parte della Cina. Si ritiene d’accordo?
La Cina è in realtà uno dei Paesi che sta guadagnando di più dalla guerra: gli americani devono impegnare le proprie forze su scala globale senza poter fare massa critica sull’Indo-pacifico. Pechino ha strappato contratti energetici a prezzi scontati a Mosca e vede crescere la propria influenza nel quadro dei Brics. Detto questo, non so quanta voglia reale abbia di chiudere la partita…
La recente provocazione di Berlusconi e le sue critiche aperte all’operato di Zelensky sembrano intercettare una stanchezza generale di molti italiani pronti a scendere in piazza per ribadire un secco “no” agli aiuti armati. Che opinione si è fatto in tal senso?
Mi sembra che i sondaggi parlino chiaro. Ma in politica estera contano poco.
Pensa che ci troveremo a parlare anche di un secondo anniversario?
Non ho la sfera di cristallo ma quello di cui sono certo è che il 24 febbraio ha il valore esponenziale di un 11 settembre. Segna chiaramente la cesura tra un prima e un dopo. Quindi ci saranno generazioni che dovranno fare i conti con la certezza di una guerra guerreggiata, con l’erosione della qualità della vita e più in generale con una profonda incertezza esistenziale. Mi permetto di aggiungere: è come essere entrati in un mondo copernicano, ma le classi dirigenti e il mondo dell’informazione indossano ancora le lenti tolemaiche per interpretare la realtà.
di Fabio Iuliano – fonte: il Centro.it
Foto di copertina: Wendelin Jacober on Pixabay