Ecco come il sito dell’enciclopedia Treccani definisce la parola “Teatro”:
- Edificio o complesso architettonico costruito e attrezzato per rappresentazioni sceniche;
- a. Spettacolo, come singola rappresentazione teatrale; b. Il pubblico, gli spettatori che intervengono a uno spettacolo teatrale; c. Con senso più ampio e comprensivo, l’attività, l’ambiente, il complesso delle persone che operano nello spettacolo teatrale; d. Denominazione di alcuni organismi teatrali, formati in genere da compagnie fisse con attori professionisti, che hanno sede in determinate città il cui nome viene aggiunto alla qualifica generica, con il programma di allestire spettacoli di carattere culturale, spesso sperimentale e d’avanguardia.
Quindi luogo fisico, materiali, attori, testo, rappresentazione fino ad arrivare inevitabilmente al pubblico. Il pubblico come “attore inconsapevole”, definizione del mai troppo lodato Peter Brook, uno dei registi più importanti nella storia del teatro contemporaneo. L’attore che agisce sul palco è quello consapevole, sa che sta agendo con uno scopo, con un’intenzione; con questo attore consapevole si interfaccia quello inconsapevole cioè il pubblico.
Una sorta di gioco di specchi per cui l’attore in platea riflette e risponde a ciò che sul palco avviene e viceversa continuando in questo “botta e risposta” virtuale lungo tutta la durata dello spettacolo. Quindi l’altra parola alla base del nostro concetto di Teatro è relazione, tra attori e soprattutto con gli ascoltatori. Si tratta in fondo della grande, fondamentale differenza tra Teatro e Cinema: il secondo può esistere con o senza qualcuno che lo veda, il primo no. Si potrebbe obiettare dicendo che con il Cinema ci emozioniamo altrettanto.
Tutto ciò è vero, ma quello che avviene è sottilmente diverso: al cinema ci si può riconoscere in un personaggio, si può entrare in empatia con esso e da lì ci si emoziona. Quanto avviene in teatro, invece, è uno scambio reciproco tra attori e pubblico di vere e proprie vibrazioni che rendono diversa ogni rappresentazione. Vedremo sempre lo stesso bellissimo film, ogni volta che vorremo; non assisteremo mai due volte di fila alla stessa rappresentazione di uno spettacolo teatrale. La presenza del pubblico diventa sostanziale: è esemplare come alcuni attori o comici non riescano a fare facilmente i loro monologhi senza la controparte in platea. E qui arriviamo per forza di cose a parlare di “catarsi”, facendo un salto temporale fino all’antica Grecia.
L’aspetto più importante delle rappresentazioni teatrali in questo periodo era pressoché uno: la capacità di creare una simbiosi vera e propria tra attori e spettatori i quali andavano a vivere un’esperienza unica che provocava il cosiddetto fenomeno della “catarsi”, appunto, da intendersi come una sorta di purificazione dell’anima. Il tutto avveniva prevalentemente tramite il genere della tragedia, la quale suscitava nello spettatore la riflessione necessaria per “rinascere puro” offrendogli l’occasione di liberarsi dagli impulsi, dalle passioni che provocavano inciviltà, ingiustizie, vessazioni.
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La rappresentazione di storie nelle quali i protagonisti finivano per morire o “sopravvivere” con sensi di colpa, rimorsi, angosce, conseguenze di scelte irrazionali, offrivano allo spettatore la possibilità di lasciarsi coinvolgere dagli stessi “peccati”, di immedesimarsi e perciò di non viverli nella realtà quotidiana. Ad ampliare le sensazioni di tormento del protagonista ci pensava la maschera, fondamentale mezzo di riconoscimento del personaggio stesso in quanto costituita da caratteri distintivi, lacrime per la tragedia e sorriso per la commedia, oltre che un mezzo di amplificazione della voce, vista la distanza tra attore e pubblico.
Nel corso del tempo, sono stati fatti numerosi tentativi di dare conto del significato specifico in ambito teatrale, e in generale si è concordato nel ritenere che il fenomeno della catarsi, in qualunque modo si verifichi, è il risultato di un’esperienza tramite cui lo spettatore è alleviato da un carico emozionale potenzialmente nocivo. Non si è dubitato neppure che l’effetto sia provocato da una esperienza emozionale diretta, benché il punto controverso sia stato – e sia tuttora – la relazione tra le emozioni alleviate nello spettatore e quelle rappresentate dai personaggi, ovvero se esse siano identiche o meno.
Poiché generalmente si concorda anche sul fatto che sono mediate dalla rappresentazione, sembra prevalere l’idea che ci sia un rapporto di affinità, ma non di identità.
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Aristotele nella Poetica scrive che “la tragedia è l’imitazione di un’azione seria e compiuta in se stessa, di una certa estensione, in un linguaggio adorno di vari abbellimenti, applicati ciascuno a suo luogo nelle parti diverse, rappresentata da personaggi che agiscono e non narrata, la quale mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni “.
Lo spettatore, dalla visione del dramma, era cioè sottoposto ad un effetto di ‘catarsi’, di purificazione: s’interrogava sul senso della vita, sul mistero della morte, sulla presenza del male, della colpa, del dolore, sul destino individuale e collettivo. Quei sentimenti quali l’amore, l’odio, la vendetta, la pietà che dominavano negli eroi tragici, una volta proiettati sulla scena, venivano razionalizzati e come espulsi, liberati, dagli strati più profondi della coscienza.
Al giorno d’oggi potremmo dire che l’autore teatrale non vuole più creare uno stato d’animo ma stimolare sentimenti, un allentamento della tensione che si accompagna al piacere della visione di uno spettacolo, sempre lo stesso, in continuo muliebre mutamento ad ogni nuova replica.
Cosa che succede ogni volta che viene a crearsi quel momento magico in cui un attore teatrale dà vita ad un personaggio e cerca di coinvolgere il pubblico, di trascinarlo con sé entro un’altra dimensione coscienziale.
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di Giuseppe Tomei – fonte: TheWalkofFame.it