«La mia Nadia, indimenticabile Iena e amica»
«Credo che se Nadia ci vedesse fare quello che stiamo facendo si ammazzerebbe dalle risate!». Il papà delle Iene, Davide Parenti, lancia così la prima serata che domani il programma Mediaset dedica a Nadia Toffa, scomparsa esattamente un anno fa. Un tributo-omaggio alla giornalista televisiva rimasta nel cuore di milioni di telespettatori, per le sue inchieste e per il suo personalissimo modo di interagire con le telecamere e con i suoi interlocutori. «Sono convinta anch’io che Nadia si farebbe delle grosse risate, anzi un po’ ci prenderebbe per il c…», rincara la dose Giovanna “Nina” Palmieri, la Iena abruzzese: giovane mamma e giornalista di Avezzano che lo scorso autunno ha debuttato nella conduzione serale, insieme a un inedito trio femminile composto da Roberta Rei e Veronica Ruggeri.
Quarantaquattro anni compiuti lo scorso marzo, la sua carriera è partita ai tempi dell’università a Roma (facoltà di Lettere e filosofia, dipartimento di Musica e spettacolo), quando ha iniziato a collaborare con testate giornalistiche prima di arrivare in tv con il programma BluNotte Misteri Italiani. Negli anni, ha lavorato anche per Ballarò e Invisibili, in questo caso con l’ex Iena Marco Berry. Ha anche ideato il format Viaggi di Nina, docusoap dedicata alle donne, con ben 5 edizioni registrate. Ha poi collaborato, anche con il Tg1 e Le Iene, inizialmente però senza mai apparire in camera. Almeno fino a Sex Education Show, il talk andato in onda prima su Fox Life e poi su Cielo.
La svolta alla carriera è arrivata proprio con il ritorno alle Iene, questa volta come inviata. «Proprio in quel periodo sono entrata in contatto con Nadia: mi avevano assegnata alla sua stanza», ricorda Nina Palmieri al telefono mentre sorveglia sua figlia Amanda che gioca in spiaggia. Alle Iene funziona così: solitamente si lavora due per stanza e non capita di rado che “i nuovi arrivati” vengano messi insieme a dei nomi già quotati come Giulio Golia, Matteo Viviani o la stessa Toffa. «Ti fai le ossa assistendo al modo di relazionarsi del collega o della collega anche se si lavora in inchieste o servizi differenti», sottolinea la giornalista abruzzese. «Io conoscevo il programma e avevo collaborato come autrice, ma fare l’inviata era tutta un’altra cosa».
Che ricordo ha di Nadia Toffa?
In occasioni del genere è facile scadere nella retorica. Nadia merita di essere ricordata per la sua semplicità, per la sua spontaneità che aveva nel quotidiano, così come davanti alle telecamere. Il suo è stato un testimone difficile da raccogliere e questi mesi sono stati piuttosto impegnativi, anche se ci è stato da stimolo un rinnovato senso di appartenenza che abbiamo riscoperto all’indomani di quel 13 agosto dello scorso anno. In una redazione, si sa, le dinamiche possono essere varie. Tuttavia, la storia di Nadia ci ha legato molto e la sua presenza la avvertiamo tutte le volte che facciamo una diretta.
Lavorare per mesi una accanto all’altra può far nascere un’amicizia che va oltre l’orario di lavoro. È stato così?
Ricordo con affetto le lunghe serate quando si partiva da un aperitivo e si tirava tardi. Ad oltranza. Con Nadia era facile legare. Una persona semplice e spontanea che aveva un modo di porsi del tutto personale. All’inizio, ad esempio, mi faceva strano vederla parlare a un centimetro di distanza da Parenti. Pensavo che tra loro ci fosse qualcosa. Poi, però, mi sono resa conto che quello era il suo marchio di fabbrica: Nadia parlava a quella distanza con tutti.
Chissà come avrebbe vissuto il distanziamento sociale da coronavirus…
Già. Comunque era un punto di riferimento per molti di noi. Non smetteva di incoraggiarci, specie quando vedeva colleghi mettere la firma su buoni servizi. Se qualcosa che facevi le piaceva, veniva e ti faceva i complimenti. E si capiva che non lo faceva per piaggeria, per ingraziarsi il consenso degli altri. Non ne aveva bisogno. Un giorno, entrai in stanza. La sentivo parlare al telefono ma non riuscivo a capire dove fosse. Poi ho guardato dietro la scrivania ed era lì a pulire le prese elettriche dicendo: “Se non lo faccio io, qui non lo fa nessuno”. Mi manca questo spaccato di vita che, giocoforza, è venuto meno quando da Milano sono stata trasferita alla redazione romana.
Vi siete sentite anche durante i mesi di malattia?
Spesso, al telefono o su WhatsApp. Si divertiva a mandarci delle gif o delle vignette di buongiorno. Niente di che, una battuta tanto per salutare. Anche via smartphone, non mancava di mostrarsi entusiasta per qualche servizio ben riuscito. Ci è stata tanto di incoraggiamento.