Zipline Majella, in volo su Pacentro
6 Settembre 2019 Condividi

Zipline Majella, in volo su Pacentro

“Il grande vantaggio del giocare col fuoco è che non ci si scotta mai. Sono coloro che non sanno giocarci che si bruciano del tutto”. La penna di Oscar Wilde non delude mai. E un buon modo di giocare col fuoco – uno dei tanti, per carità – è quello di prendersi una giornata e fare un salto a Pacentro (L’Aquila).

Alla vigilia dell’estate, con tanto di caschetto e fascia tricolore, il sindaco Guido Angelilli si è fatto imbracare e si è lanciato in un volo sospeso sul borgo. Più o meno 1.030 metri che collegano le estremità del paese, all’inizio del parco della Majella.

Il lancio – subito ribattezzato il “volo dell’Angelilli” in omaggio alla celebre attrazione che collega Castelmezzano con Pietrapertosa in Basilicata – ha di fatto inaugurato la nuova Zipline, realizzata con i fondi Fas per un importo di 280 mila euro, con lavori realizzati nello scorso anno.

Cos’è una zipline? Praticamente è un cavo d’acciaio, legato a una struttura, ci si aggancia al cavo e si vola in discesa. A differenza del “volo dell’angelo” lucano, dove si è distesi come se si fosse su un materasso ad aria, in questo caso si sta un po’ più scomodi, magari anche in balia delle folate di vento che ti spostano da un lato e dall’altro. Insomma, ti senti un po’ come un salame appeso, provare per credere.

Con Rosario ce l’eravamo promessi a inizio estate. Insieme avevamo fatto il bungee jumping e lì era una questione di trovare il coraggio per metterti in posizione di lancio e fare i conti con il fatto di dover inevitabilmente guardare in basso.

Il difficile è, soprattutto, trovare l’equilibrio giusto per levare la mano destra dal supporto e allargare le braccia.

Meglio spegnere il cervello. Perché non si fa una cosa irrazionale con un approccio razionale.

Sempre con Rosario avevamo fatto il “volo dell’angelo”, apprezzando l’adrenalina di trovarsi appesi a un cavo a 3-400 metri dal suolo.

Qui a Pacentro il dislivello è ben ridotto, ma tanto basterebbero 30 o 40 metri (ma anche 3 o 4) di caduta a disintegrarti.

Meglio non fare di questi pensieri quando stai per essere imbracato, pur sapendo che la testa non la controlli: quando sei in volo sei al sicuro,  il cavo sa il fatto suo e ti sei già messo alle spalle la parte più rischiosa del viaggio, cioè il trasferimento nel furgoncino degli organizzatori che parte dal centro del paese.

La guida di Antonio Pisone, uno dei due responsabili dell’associazione Abruzzo Estremo, insieme a Massimo Angelilli, ti fa rimpiangere quella dei tassisti turchi sulla via per Izmir e le curve della stradina che conduce al punto di partenza diventano chicane.

Per fortuna, Antonio è uno dalla chiacchiera facile e in macchina ha una buona playlist, così ci si distrae e non si pensa a guardare lo strapiombo.

“Abbiamo già fatto qualcosa come 1.200 lanci”, ci dice, aggiungendo che tutti sono arrivati a valle con il sorriso sulle labbra. Certo, c’è anche chi si fa imbracare e, all’ultimo, momento non se la sente.

Per non correre rischi di ripensamenti, siamo partiti solo dopo un sostanzioso aperitivo a base di Ichnusa non filtrata al bar della piazza centrale, con tanto di panini con prodotti tipici alla Dispensa della Masseria La Rocca.

Una volta che ci si lancia, in ogni caso, non bisogna fare niente, il cavo pensa a tutto.

Quasi tutto… perché l’imbracatura termina con una specie di triangolo, tipo quelli che troveresti in un’orchestra. “Serve per orientarsi”, ci dice Antonio.

“Orientarsi in che senso, scusa?” chiedo, con l’adrenalina che mi fa passare dal lei al tu. “Non andiamo tutti alla stessa parte?”.

“Sì, però a volte il vento ti spinge a destra o sinistra e devi rimetterti dritto”.

“Ah, buono a sapersi. Ascolta… quante persone si sono ritirate subito prima di lanciarsi, dopo aver ricevuto queste istruzioni?”

“Beh qualcuno, non se l’è sentita all’ultimo”, ammette mentre l’Ichnusa mi rimbalza tra le budella e serve anche quello.

Altra raccomandazione, quella di tenere il triangolo lontano dal viso perché poco prima della stazione di arrivo c’è una specie di freno e se non stai attento rischi di sbattere il naso contro il nastro giallo che è all’interno. Ripete il concetto 3 o 4 volte ribadendo che è l’unica vera piccola attenzione che si deve prestare.

“Ma che succede se lascio il triangolo?”, chiedo quando già sono in posizione di lancio.

“Niente”, assicura. “Non succede niente. Buon volo e divertiti”.

Neanche il tempo di finire la frase e sto già scivolando sul cavo. Le folate di vento non mancano e mi ritrovo effettivamente da un lato e dall’altro. Inizio a prendere confidenza con i ganci quando sto già sorvolando l’abitato di Pacentro e c’è una visuale davvero scenica. Poco più avanti le bandiere che accompagnano il tracciato della corsa degli zingari con tanto di drone a sorvolare la zona. Vorrei godermi il paesaggio ma sono troppo impegnato a fare pace col triangolo.

Una tranvata finale segna la fine della corsa. Solo allora capisco cosa intendesse Antonio quando si raccomandava di tenere il triangolo lontano dal viso. Avete presente come si sente un salame appeso? Beh eccomi qui.

di Fabio Iuliano – fonte: Virtuquotidiane.it