L’Aquila 2009-2019, il tempo che (non) si è fermato
Fa un uno strano effetto ascoltare oggi, dopo una ventina di anni, Miss Sarajevo, la canzone in omaggio a una città “dalla testarda urbanità che sopravvive agli inverni, ai cannoni, alle restrizioni alimentari, all’assenza di luce, acqua e gas”. Come per dirla con le parole di Paolo Rumiz che rendono giustizia a una comunità capace di centellinare ogni residuo comfort, di non rinunciare ai riti di un’antica vita borghese, ai suoi concerti, ai suoi spettacoli.
IL TEMPO. La canzone propone un riferimento indiretto al Qoelet, il libro che descrive un tempo per ogni cosa, per nascere, per morire, per piantare, per demolire e costruire. Le strofe scandite da Bono, Brian Eno e Pavarotti, procedono però al rovescio, quasi per dire che a Sarajevo, in quel preciso contesto storico, avveniva tutto nello stesso momento: la guerra, le rovine, le tragedie, ma anche le occasioni di intimità di chi, come le miss dell’epoca, non voleva rinunciare alla vita anche negli aspetti più frivoli.
LE CONTRADDIZIONI. Quelle stesse contraddizioni che vivono in tanti all’Aquila, in un centro storico di una città piccola nella dimensione, ma non nelle aspirazioni. Il 6 aprile 2009, alle 3.32, fu registrata una scossa di 6.3 di magnitudo. Il bilancio definitivo del terremoto dell’Aquila fu di 309 vittime, più di 1.600 feriti e miliardi di euro di danni stimati, mentre 65mila persone dovettero abbandonare le loro case. Crollarono la Casa dello Studente, il palazzo della Prefettura, alcuni locali dell’ospedale. Tutto il centro storico della città riportò seri danni e l’accesso ne fu precluso per molto tempo.
LO STATO DELL’ARTE. A dieci anni dal terremoto dell’Aquila, nonostante le criticità innegabili, molto è stato fatto. Il #10yearschallenge rende bene a tratti. Circa 23mila le pratiche evase nel capoluogo. “Stiamo cercando di rendere giustizia a un Paese che, dall’inizio dell’emergenza, ha speso qualcosa come 18 miliardi”, spiega il sindaco Pierluigi Biondi. La ricostruzione ha riportato luce su vari monumenti tra chiese, Fontane, palazzi e teatri e le periferie del capoluogo abruzzese sono quasi completamente ricostruite, cosa che non può certo dirsi per le frazioni (alcune anche molto distanti) e i paesi del circondario.
LE SCELTE STRATEGICHE. Nel corso di questo tempo, scelte strategiche di ricostruzione post-terremoto del 6 aprile 2009 hanno lasciato una prima impronta all’interno del centro storico, specie a ridosso dell’incrocio tra il cardo e il decumano della città. Ma a creare fermento è stata la grinta di una comunità che non ha mai avuto modo di adagiarsi in un tessuto sociale accogliente, sovrapponendo le proprie passioni e la voglia di centro a un tessuto sociale che esiste e non esiste.
OLTRE LE TRANSENNE. Nessuno se la sentì di fermare il flusso di gente che, per la prima volta, forzò le transenne ai Quattro Cantoni. Nel febbraio del 2010, dopo dieci mesi di emergenza, alle ferite del sisma si era sovrapposta l’ingiuria delle parole degli imprenditori che ridevano nelle intercettazioni di una telefonata risalente alle ore immediatamente successive alla scossa, ma rivelata solo dieci mesi dopo. E questo aveva contribuito ad accrescere la tensione.
A spingere quelle transenne c’erano soprattutto decine di chiavi appese simbolicamente come per dire: “Qui ci sono le nostre case, il centro storico è nostro e vogliamo riprendercelo”. «Tornatevene a casa: disobbedite ai divieti. Tornate e riprendetene possesso con le vostre cose, i vostri rumori e i vostri odori». Farà poi dire alla luna, lo stesso Rumiz nella post-fazione ai Gigli della memoria (Tabula Fati). «La zona è rossa, ma di vergogna perché viene preclusa ai vivi. Non lasciate sole le vostre pietre». Una sfida rimasta in sordina per molti, alle prese con la fatica di un quotidiano che, specie all’inizio, tutto sembrava meno una vita normale.