Lampedusa, il dovere del ricordo
Ricordare il nome di Welela, Eze e Yassin, queste le storie ricostruite, è possibile. Tre in più in un cimitero, come quello di Lampedusa, in cui non si sa ancora con certezza quanti siano i migranti sepolti. Un piccolo gesto questo, che ci caratterizza come custodi della memoria insieme a tanti altri operatori, attivisti e semplici cittadini che operano sul versante Mediterraneo: diremmo poco o nulla in confronto alla mole di lavoro che andrebbe fatta per restituire un’identità alle migliaia di migranti morti, dispersi o mai identificati. Un gesto potente se si guarda alle responsabilità, a quei morti e dispersi condannati per sempre ad essere cancellati da una sorta di damnatio memorie dei nostri tempi, esito soprattutto del pantano burocratico delle procedure disposte dalle attuali politiche di frontiera, o dalle lacune normative in merito.
Lampedusa, come spesso abbiamo avvertito sulla nostra pelle, è un’ isola di transito. Un luogo di quasi incontro, in cui incrociamo la vita e la morte sul molo Favaloro. Pochi momenti che rischiano di non lasciare traccia se costantemente non ci ricordiamo e non ricordiamo che ogni vita è una singolarità, è un’eccezionalità e come tale va trattata.