Immigrazione e lacrime di sale, una scelta definitiva
Con la collaborazione della giornalista Lidia Tilotta, Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, ha raccolto in un volume, Lacrime di sale, una serie di testimonianze agghiaccianti sull’immigrazione nel Mediterraneo. Storie di povertà, violenza, ma anche di tragiche scelte “definitive” come quella di un padre che si trova a scegliere quale figlio salvare dal naufragio.
Quasi tutti ricordano il naufragio del 3 ottobre 2013. Le trecentosessantotto vittime, le bare allineate nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa: morte a pochi metri dalla spiaggia, dalla salvezza, dalla nuova vita. Meno numerosi, invece, sono coloro che ricordano l’altro naufragio, accaduto l’11 ottobre, solo pochi giorni dopo. Perché, anche se i numeri non erano meno importanti, non è avvenuto a pochi metri dal porto ma al largo di Malta. Quel giorno a Lampedusa atterrò un elicottero maltese con nove sopravvissuti. Il poliambulatorio sembrava un ospedale da campo in piena guerra. Stavano sdraiati o seduti sulle sedie a rotelle con le flebo attaccate e le coperte addosso. Uno di loro aveva perso la sua famiglia, ventidue persone in tutto. Urlava e piangeva. Voleva ammazzarsi, non si dava pace per essere l’unico in salvo. Lo sedammo e riuscimmo a calmarlo.
Accanto, su una sedia, c’era un altro giovane uomo, un siriano anche lui con la flebo. Stava in silenzio, con lo sguardo spento. Provai a parlargli, ma inutilmente. Poco distante una donna teneva in braccio un bimbo di nove mesi. Pure lei sembrava assente, come se non fosse lì, come se col pensiero si trovasse altrove, e teneva il suo bimbo in modo strano. Prima lo stringeva forte, poi se ne distaccava come se avesse addosso un pacco. Continuamente.
Dopo circa un’ora l’uomo decise di raccontarmi ciò che era accaduto. Quella donna era sua moglie. Quando il barcone si era rovesciato, erano finiti tutti in acqua. Erano più di ottocento. Lui era un ottimo nuotatore e aveva messo il piccolo di nove mesi sotto il maglione, sul suo petto. Poi con una mano aveva afferrato la moglie e con l’altra il figlio di tre anni. Avevano cominciato a nuotare a dorso senza fermarsi. Cercando di rimanere disperatamente a galla. Aspettando i soccorsi che non arrivavano. Un’attesa estenuante. A un certo punto aveva sentito il fiato mancargli all’improvviso, le onde che diventavano sempre più alte e la corrente sempre più forte. Aveva dovuto compiere una scelta. Una scelta definitiva, dalla quale sapeva che non sarebbe più potuto tornare indietro. Sospeso tra la vita e la morte, aveva dovuto pensare, calcolare, valutare e poi decidere. Se avesse continuato a nuotare, sarebbero finiti tutti e quattro sott’acqua, morti annegati. Così alla fine lo aveva fatto: aveva aperto la mano destra e aveva lasciato quella disuo figlio. Lo aveva visto scomparire lentamente, per sempre. Mentre me lo raccontava non smetteva di piangere e non riuscivo a smettere nemmeno io. Non ho avuto la freddezza necessaria per reagire e controllarmi. Mi sono sentito sconfitto. Un medico non dovrebbe farsi veder piangere davanti a tanto strazio.
Ciò che tormentava quell’uomo era che pochi minuti dopo era arrivato l’ elicottero per salvarli. “Se avessi resistito solo un altro poco, adesso mio figlio sarebbe qui con noi. Non me lo perdonerò mai”.