Lombardi: mi legai con le catene all’Aqula, ma non per avere un seggio
Dura davvero la trafila dell’aspirante al seggio. Da una parte le luci dei mercatini di Natale di piazza Navona. I colori dell’alba nelle mattine di primavera di Campo dei Fiori. Il viavai dei turisti d’estate. Dall’altra le ombre di un clima torbido che si respirava all’Aquila e in Abruzzo, come riflesso di Tangentopoli. Così l’aquilano Enzo Lombardi ha vissuto l’XI legislatura, l’ultima della prima Repubblica: 722 giorni vissuti da senatore della Democrazia cristiana dal 1992 al 1994. Aveva alle spalle già due mandati come sindaco dell’Aquila e un’esperienza al seguito del partito, raccogliendo l’eredità di quel gigante della politica che era Lorenzo Natali. Un flusso di eventi scandito da battaglie dentro e fuori le aule del tribunale, culminato in una clamorosa protesta in catene davanti al palazzo di Giustizia.
Era il febbraio del 1994 e Lombardi si attrezzò col montone e il colbacco per restare oltre 5 ore all’addiaccio, attirando la curiosità degli aquilani che di buon mattino si stavano recando al Comune. Lombardi, come arrivo’ a Palazzo Madama?
«La mia attività politica iniziò a ridosso degli anni Ottanta, quando mi venne proposto di farmi eleggere come sindaco del paese di origine, Castel di Ieri. All’epoca ero funzionario del ministero dei Lavori pubblici, in una struttura che faceva riferimento a esponenti del calibro di Mario Ferrari Aggradi, più volte ministro Dc. Mi occupavo, in particolare della ricostruzione di luoghi devastati dalla guerra». Che clima trovò all’Aquila quando si candidò a sindaco?
«Tutt’altro che facile. Fui eletto due volte, ma nel momento della riconferma, nel 1990, la sinistra di allora tentò di contrastarmi in tutti i modi. Era guidata da Marco Pannella che si era messo a capo della famosa lista della Genziana, una specie di laboratorio politico nazionale declinato in una lista civica comunale dove confluirono esponenti del Pci, della Dc, del Pri. Conoscendo i regolamenti della Dc che impedivano la candidatura di politici che avessero guai con la giustizia, tentarono di gettarmi del fango in tutti i modi. Ma riuscii comunque ad andare avanti: nel 1992 lasciai l’incarico di sindaco per candidarmi a senatore. La proposta arrivò dai vertici di un partito che piangeva ancora la scomparsa prematura di Natali».
Non dovette sgomitare quindi, per ottenere la candidatura.
«Fui proposto per il collegio senatoriale della mia area, uno dei sette in Abruzzo. Si faceva campagna nell’Aquilano e nella Valle Peligna, così in alcuni comuni della Val Pescara e del Gran Sasso teramano».
A Roma viveva lontano dalla famiglia?
«Avendo lavorato per molto tempo nella capitale, presi una casa in affitto in centro. Eravamo abituati agli spostamenti L’Aquila-Roma».
Arriviamo alle catene del 1994, i giornali dell’epoca parlano di una sua protesta contro Martinazzoli che non voleva ricandidarla con il Partito popolare, in virtù dei 7 avvisi di garanzia a suo carico.
«Di avvisi di garanzia ne ho avuti ben 32, senza aver neanche mai preso una multa. Ma le cose non andarono così. Quella protesta non era affatto personale, volevo portare all’attenzione del ministro della Giustizia, che dopo riuscii a far arrivare all’Aquila, un clima di faida giudiziaria e di una serie di eventi poco chiari, tra inchieste, querelle giudiziarie, accuse, fino ad arrivare allo scioglimento di un’intera giunta regionale».