Don Ciotti all’Aquila: “Solidarietà e stop alle violenze”
Le sue parole hanno scandito le tappe della ricostruzione, dalla solidarietà delle prime ore alle bordate contro chi del terremoto ha fatto un’occasione di profitto, dentro o fuori le organizzazioni criminali. E ieri, don Luigi Ciotti è tornato all’Aquila ospite di uno degli incontri inaugurali del Festival della partecipazione. Un confronto, in primo luogo, sul tema dell’immigrazione, tra emergenza attuale e testimonianze di un passato neanche molto lontano per la Penisola, quanto troppo spesso dimenticato. Non a caso, il giornalista e conduttore radiofonico, Marino Sinibaldi, chiamato a moderare l’incontro, nell’introdurre l’intervento del fondatore di Libera, ha fatto riferimento alla tragedia del Sirio, il piroscafo naufragato nel 1906 di fronte alle coste del Capo Palos a Cartagena, mentre trasportava centinaia di emigranti italiani. Una tragedia, quella di oltre un secolo fa, messa in relazione con le tantissime vittime degli sbarchi nel Mediterraneo, in un momento che registra l’omicidio efferato quanto inspiegabile del giovane nigeriano, Emmanuel Chidi Nambdi, aggredito mentre passeggiava con la compagna, a Fermo, in pieno giorno.
«L’omicidio di Emmanuel», ha detto don Ciotti, «è il segno di un deserto culturale diffuso, di una crescente negazione della dignità delle persone nel nostro Paese. C’è una violenza che cova nei linguaggi, un naufragio delle coscienze. Non basta condannare la violenza, occorre bonificare le paludi dell’indifferenza e dell’egoismo che rendono possibile tutto questo». Secondo Don Ciotti, «serve una grande rivoluzione culturale per affrontare un tema come quello dell’emigrazione. Quanto accaduto ci pone domande ed interrogativi su quello che sta succedendo in un’Europa che sta calpestando le sue radici».
Le parole sono cariche di sofferenza. Sul palco di piazza Duomo scorrono le fotografie in controluce degli sbarchi di Lampedusa, rievocate dall’esperienza del fondatore di Libera. Si parla dell’impotenza dei volontari di fronte alla necessità di tirare fuori dal mare centinaia di cadaveri. Si parla delle immagini strazianti delle madri morte abbracciate ai loro piccoli: «preferiresti quasi lasciarli lì, in mezzo al mare, per non spezzare quell’abbraccio». Una realtà che fa fatica a farsi strada tra le coscienze degli italiani. «C’è chi continua a costruire consensi criticando lo straniero», ha sottolineato don Ciotti, «nel nostro Paese ci sono persone, con nomi e cognomi, che alimentano e assecondano questa deriva razzista. Vogliono fare distinzione tra rifugiati e migranti economici, come se quelli che fuggono perché non hanno da mangiare non meritassero ugualmente di essere aiutati». Il religioso non si mostra indifferente di fronte ai dati della crisi al Paese almeno 8 milioni di persone in difficoltà, con 2,3 milioni di giovani che «né studiano ,né cercano lavoro. Però qui si vuole fare business sull’industria della sicurezza, oppure si vuole puntare l’accento sulle differenze religiose». Citando il compianto cardinale, Carlo Maria Martini, don Ciotti ricorda che «Dio non è cattolico. Dio ama tutti, Dio è di tutti».
Sul palco di piazza Duomo anche Carlo Petrini, presidente di Slow food, che ha puntato l’accento sulla necessità di affrontare con la cultura questa partita complicatissima delle migrazioni. «L’esodo importante cui assistiamo è destinato ad aumentare», ha osservato. «Per questo il nostro popolo deve ricordare, avere memoria di quanto accaduto in passato, quando erano i nostri nonni a partire. La scuola deve dire chi siamo stati, cosa abbiamo fatto, raccontare della gente umile che lasciava le sue terre. Questo è il nostro Paese». Lo stesso Paese in cui «oggi gli immigrati tengono in piedi più della metà del Made in Italy alimentare. Pensate che il Barolo lo facciano i piemontesi? Una volta forse, oggi nelle cantine piemontesi lavorano migliaia di operatori stranieri. La stessa cosa possiamo dire per il Parmigiano Reggiano, oppure per la Fonduta valdostana. Ma chi ci mette le braccia viene dall’India, dalla Macedonia, dal Maghreb».
«Questo», ha aggiunto Petrini, «per non parlare del dramma legato alla raccolta dei pomodori, dove si lavora per due euro al quintale, sotto l’acqua o sotto il sole cocente».
E persino la geografia della ricostruzione sarebbe diversa. La prospettiva di Petrini e don Ciotti è netta, basti pensare che buona parte degli operai che stanno lavorando in quello che consideriamo il più grande cantiere d’Europa viene da fuori Abruzzo e sono moltissimi gli operai stranieri. «Tanti fra gli invitati a questo grande pranzo collettivo degli operai», dice Petrini, «sono immigrati. Sono loro i protagonisti della rinascita post-sisma; sono o non sono nostri fratelli?».
di Fabio Iuliano – fonte: il Centro