Pearl Jam, il video completo del live a Trieste
Per chi aveva vent’anni nei primi anni 90, assistere oggi a un concerto dei Pearl Jam equivale a ripercorrere un flashback attraverso la propria vita. Eddie, Stone, Jeff, Mike e Matt sono cresciuti e maturati, il loro spettacolo è una lunga cavalcata ideata per regalare al pubblico il meglio della propria carriera, ma ogni sera in modo diverso, modificando sempre drasticamente la scaletta, facendo dell’imprevedibilità un asso nella manica che poche altre formazioni al mondo riescono a giocarsi in maniera altrettanto credibile. Uno show di tre ore nel quale i cinque musicisti americani (sei, considerata la presenza alle tastiere del membro aggiunto Boom Gaspar) danno l’anima.
Il giochino del “vediamo con cosa apriranno stasera” a Trieste (bello lo stadio “Nereo Rocco”, sufficientemente grande e raccolto, 35.000 presenze stipate fino ai piani più alti delle gradinate) si risolve in favore di “Elderly Woman”, che assieme a “Low Life” rappresenta l’elegante preludio di un concerto memorabile realizzato da un guppo in evidente stato di grazia. Ma la vera dichiarazione d’intenti è il terzo pezzo, “Black”, la carta del superclassico lanciata subito sul tavolo verde, a far intendere che se ne vedranno delle belle. E infatti per tre ore tonde (con ben 34 canzoni eseguite) il pubblico resterà coinvolto in un vero e proprio uragano emozionale, con punte di catarsi ai massimi storici.
I momenti memorabili saranno molteplici: dal funambolico Mike McCready che suona parte del solo di “Even Flow” con la chitarra posta dietro il collo (tanto per non far dimenticare che questi ex-ragazzi vengono da Seattle, la stessa città che diede i natali a Hendrix), alle migliaia di luci (oggi non sono più accendini, ma telefonini) che costellano l’esecuzione da brividi di “Come Back”, dedicata da Eddie a Johnny, un amico recentemente scomparso, fino all’applauditissimo ripescaggio di “Chloe Dancer/Crown Of Thorns”, brano di quella che fu la band genitrice dei Pearl Jam, i Mother Love Bone, perché un omaggio ad Andrew Wood è sempre dovuto: senza la sua prematura scomparsa forse tutto questo non ci sarebbe mai stato, e forse Vedder avrebbe continuato a surfare sulle onde di San Diego, serbando segreti desideri irrealizzabili.
Quel Vedder che stasera ha scelto di indossare il completino del perfetto ragazzo della Generazione X, camicia a quadri e bermuda appena sotto il ginocchio, la stessa divisa che spesso aveva in dosso ai tempi di “Ten”/“Vs”/“Vitalogy”.
Non mancano i brani più famosi, i cavalli di battaglia (“Alive”, “Jeremy”, “Given To Fly”), ma come sempre grande attenzione viene riservata ai fan più devoti e oltranzisti, attraverso il recupero di chicche particolari da una discografia sconfinata: oggi tocca a “Down” (outtake che finì nell’enciclopedico “Lost Dogs”) e “Let Me Sleep” uno dei brani che annualmente il gruppo regala agli iscritti del fan club come omaggio natalizio.
Quando i Pearl Jam diventano rabbiosi, dimostrano di avere la stessa intatta carica degli esordi, come avviene sia nei feroci evergreen “Why Go”, “Animal” e “Whipping”, sia nelle più recenti scorribande di “Got Some” e “Mind Your Manners”. E poi ci sono i pezzi dove viene giù lo stadio, e sono tanti, da “Corduroy” a “Do The Evolution”, fino alle amatissime “State Of Love And Trust”, “Porch” e “Once”.
Ma il momento topico è nell’esecuzione della stupefacente “Deep”, con Eddie Vedder piegato su sé stesso a gridare tutta la rabbia del mondo. Se non è leggenda questa!
A saltare in aria sulle note di “Rearviewmirror” e “Better Man”, cantando ogni singola parola all’unisono, non sono soltanto i vecchi nostalgici del grunge, ma anche adolescenti che non erano ancora nati quando i Pearl Jam scesero in Italia per la prima volta. Perché oggi quella di Vedder è una band transgenerazionale, in grado di riempire uno stadio in qualsiasi angolo del pianeta, presentando uno show sempre intenso, trascinante e ineccepibile. L’unico appunto è che dopo tanti anni continuare a chiudere i propri set quasi sempre con le stesse canzoni (e stavolta “Rockin In The Free World” e “Yellow Ledbetter” vengono suonate entrambe, come al solito a luci accese, dando vita a un doppio inatteso ending) sta diventando un pochino stucchevole. Ma se a chiederlo è uno striscione di oltre venti metri srotolato lungo l’intero inner circle, beh, allora c’è davvero ben poco da discutere.
Questo di Trieste (seconda tappa italiana dell’European Tour 2014, dopo quella di Milano di due giorni prima) se non è “il concerto più bello della nostra vita”, è senz’altro “il concerto della nostra vita”, perché in tre ore abbiamo ripercorso tutto quello che siamo stati, tutto quello che abbiamo pensato, tutto quello che abbiamo vissuto, tutto quello che abbiamo sognato, dal 1991 ad oggi.
di Claudio Lancia – fonte Ondarock
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Playlist
Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town
Low Light
Black
Sirens
Why Go
Animal
Corduroy
Getaway
Got Some
Given To Fly
Leatherman
Lightning Bolt
Mind Your Manners
Deep
Come Back
Even Flow
Down
Unthought Known
Infallible
Whipping
Do The Evolution
Rearviewmirror
…. ….
Let Me Sleep
Chloe Dancer / Crown Of Thorns
Jeremy
State Of Love And Trust
Wasted Reprise
Life Wasted
Porch
…. ….
Better Man
Once
Alive
Rockin’ In The Free World
Yellow Ledbetter