Il professor Colapietra “La mia città ferita”
«Qualche giorno fa, accanto ai manifesti mortuari posti in un angolo della Fontana Luminosa, c’era un vecchio in lacrime appoggiato alla pensilina del bus. Quel vecchio ero io: avevo visto il nome di una donna, un nome che parlava dei miei 16 anni, della città a cui ero legato, quella della mia giovinezza. È questa L’Aquila che ricordo».
Il professor Colapietra non finisce mai di stupirti. Gli chiedi come immagina la città nei prossimi dieci anni e liquida la domanda con un secco: «Fra dieci anni sarò morto. E anche se campo, poco mi cambia». In realtà, Raffaele Colapietra è vivo e vegeto e la sua lucidità da storico, al di là delle battute, gli consente di dare delle prospettive inedite alle vicende di questa città. Solo qualche giorno dopo la scossa del sei aprile fece delle valutazioni che questi cinque anni non hanno smentito, a partire dal pericolo che questa città si svuoti. Come cinque anni fa, la sua vita si svolge tra la sua casa in via Pescara – che non ha mai lasciato, salvo una parentesi di 15 mesi per i lavori post-sisma – e il centro storico. Un percorso tra vincoli e puntellamenti.
«I cittadini che vivono a 15 chilometri non sono più cittadini», spiega. «Nel 1703 era diverso. La gente era molto più abituata alla sofferenza e molto meno alla fuga». Una carriera di storico, dall’Università di Salerno, con ricerche e pubblicazioni nazionali. E, poi, un momento di svolta – legato a ragioni personali – che lo ha visto tornare all’Aquila, la città natale, e intraprendere studi specifici sul Mezzogiorno, sull’Abruzzo e sul capolugo. Eppure, per il resto d’Italia, l’immagine del professore è legata più che altro alla scelta di non lasciare la sua casa natale, per nessuna ragione.
Professor Colapietra, perché ha voluto a tutti i costi restare nel suo appartamento?
«Non è stato facile. Ho fatto quello che forse tutti i cittadini aquilani avrebbero voluto fare. Non per attaccamento viscerale a questa città. Non ho mai avvertito, del resto, quella Aquilanitas di cui vanno fieri i vari Attilio Cecchini e Angelo De Nicola. Ma restare qui era l’unico modo per evitare di far fare ad altri delle scelte compromettenti, come quella di smembrare l’insediamento urbano in 19 aree».
Una scelta che lei ritiene quasi pericolosa.
«Vede, il venerdì successivo alla scossa del sei aprile il suo giornale riportava un’intervista di Giuliano Di Tanna. Io ho detto delle cose che non sono state smentite dal tempo. In quei giorni sentivo certe dichiarazioni di Silvio Berlusconi che sembravano echeggiare l’“Io sono la resurrezione e la vita di Gesù Cristo”. Quasi che Berlusconi dicesse: posso far rivivere i morti e posso farlo a modo mio. Ed è quello che ha fatto: ha permesso a questa città di “morire” consentendo alla gente di andar via facilmente, li ha mandati “in vacanza”. Salvo, poi, farsi il garante di una “resurrezione” all’interno delle famose 19 aree. Abbiamo avuto 35mila persone sulla costa. Del resto anche a me alcuni amici proposero di sistemarmi in un albergo di Tortoreto, era tutto pronto. Ma ho saputo resistere».
Cosa si sarebbe potuto fare diversamente?
«Il problema non è Berlusconi. Le responsabilità sono legate anche all’atteggiamento delle autorità locali. Proclamando la zona rossa praticamente ovunque, il sindaco Massimo Cialente ha messo la città in mano alla protezione civile. Ora, cosa sia successo non so dirlo: o ha perso la testa, o gli è stato imposto di fare così. In questo caso, avrebbe dovuto lasciare il suo incarico. Se vivessimo in un’altra epoca qualcuno gli avrebbe lasciato una pistola per farla finita, come succedeva ai vecchi ufficiali disonorati. Invece, non solo è rimasto al suo posto, ma ha permesso che qualcuno dei suoi collaborasse con la Protezione Civile. Del resto, ho visto con i miei occhi gli architetti Vincenzo De Masi e Marino Bruno lavorare a stretto contatto negli uffici della caserma di Coppito. Sono loro che hanno pensato ai 19 quartieri».
A proposito di Coppito, cosa ne pensa del G8?
«Ricordo con piacere qualche settimana prima la presentazione del volume “L’Aquila bella mai non può morire” , un importante repertorio della ricchezza del patrimonio d’arte e di cultura conservato nel capoluogo. Fui io a scegliere il titolo, modulato su versi del ’400, all’epoca di Braccio da Montone. C’erano le autorità: Luciano Marchetti, Anna Maria Reggiani, ex sovrintendente suprema prima di Fabrizio Magani, oltre al mio amico Eugenio Carlomagno. Vennero a prendermi con la scorta a casa e dissi loro: “Vengo a condizione che mi riportiate qui appena finito”».
Come ha fatto a respingere le pressioni della Protezione civile?
«Sono venuti un paio di volte e la seconda stavano usando delle maniere forti. Ero a un punto dall’uscire di casa, ma poi sono riuscito a rimanere. Loro hanno telefonato a qualcuno che deve averli rassicurati sul fatto di non incorrere in responsabilità e sono rimasto. Ogni giorno mangiavo grazie al cibo che mi veniva portato dalle tendopoli grazie a Pina Calì o Stefania Liberatore».
Cosa pensa di quello che è successo dopo, della rabbia della gente e, ad esempio, delle carriole?
«Non è pulendo qualche strada che si ricostruisce. Sono stati poco più che un movimento folcloristico. Poco più di Sant’Agnese».
E degli scandali post-sisma?
«Io credo che un sisma, purtroppo, rappresenti un affare che fa gola a molti. Il caso ha voluto che solo due imprenditori siano stati sorpresi a ridere. Ma almeno duecento devono averlo fatto, fiutando un affare immediato. Aquilani stessi».
di Fabio Iuliano – il Centro