Quei ponti fragili tra L’Aquila e Seul
Una delle telefonate che ho ricevuto subito dopo la scossa del 6 aprile 2009 aveva il prefisso della Corea del Sud. Ricordo bene quello 0082 sul display del mio Nokia associato a un nome in rubrica: Kiara Chung. Ci siamo conosciuti una sera a Parigi, sbagliando metropolitana e poi lei è venuta a trovarmi all’Aquila. Le ho mostrato strade e vicoli di un centro storico che di lì a qualche anno sarebbe stato distrutto dal terremoto. Mi capita spesso di pensare a lei in questi giorni. Scorro il suo profilo Facebook che racconta di una professionista in campo assicurativo, madre di due bimbi e appassionata di tango. Le foto dei piccoli mi si aprono davanti, mentre su un’altra finestra ho gli rss dell’Ansa con le notizie sulla nuova tensione tra Seul e Pyongyang.
Oggi si parla della decisione della Corea del Nord di sospendere gli ingressi dei lavoratori sudcoreani al distretto di Kaesong. La decisione, comunicata al ministero dell’Unificazione di Seul è destinata a creare altra tensione nei rapporti intercoreani. Di fatto, il ministro della difesa sudcoreano ha annunciato un piano d’emergenza che prevede qualsiasi azione, anche un ricorso alla forza per tutelare la sicurezza dei suoi cittadini che lavorano in quest’area, un complesso industriale in territorio nordcoreano, dove operano però 123 di aziende del Sud e 53 mila lavoratori nordcoreani. Kaesong genera ogni anno nelle casse nordcoreane flussi per 87 milioni di dollari, in prevalenza grazie ai salari dei circa 53.000 lavoratori impiegati, fornendo supporto a oltre 250.000 persone, familiari inclusi.
Kiara vive e lavora a Seul. Più volte, nei mesi scorsi, l’ho contattata chiedendogli se quello che leggiamo on line è tutto vero. Se si sente a rischio o se si tratta solo di schermaglie diplomatiche. Sembra incredibile dover parlare di queste cose dopo i segnali di distensione all’inizio della decade scorsa. Dieci anni fa, nel 2003, le Universiadi estive a Daegu avevano visto gli atleti delle due Coree sfilare e gareggiare sotto un’unica maglia, per la prima volta nella storia. Il movimento universitario internazionale era riuscito a unire molto di più di quanto aveva fatto la Fifa con il mondiale giapcoreano del 2002. Così come le competizioni studentesche internazionali negli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta avevano agevolato la distensione delle relazioni con i paesi dell’Est.
Quella notte di mezza estate a Daegu c’ero anche io. E c’era anche Kiara. Sullo stesso prato che l’estate precedente aveva visto duettare Henry e Zidane, studenti di tutto il mondo avevano condiviso lo slogan della manifestazione «Dream of unity (il sogno di unità)». Ricordo bene lei, che qualche sera prima a Seul mi aveva impressionato portandomi a una serata di tango animata dagli amici coreani, perfettamente a loro agio con la milonga. Sono sicuro che, in quell’occasione, mi abbia detto qualcosa come «Forse è la prima volta che vedo dal vivo delle persone della Corea del Nord». Ricordo di aver visto due tedeschi con uno striscione che raffigurava la Germania unita e davanti c’era scritto «Unity is possible». Un sogno che resta ancora tale, e chissà per quanto.